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Vatel:ascesa e caduta dell'homo faber

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  1. Ascesa e caduta dell’ homo faber :VATEL

Lettera di madame de Savigny, Parigi, domenica 26 aprile

È domenica 26 aprile: questa lettera partirà solo mercoledì; ma non è una lettera, è un resoconto che mi ha appena fatto Moreuil, per mandarvela, di ciò che è accaduto a Chantilly, riguardante Vatel.

Vi scrissi venerdì che si era pugnalato; ecco la vicenda in dettaglio.

Il re arrivò giovedì sera; la caccia, le lanterne, il chiaro di luna, la passeggiata, la merenda in un luogo tappezzato di giunchiglie, tutto a meraviglia. Cenarono, vi furono alcune tavole su cui mancò l’arrosto, a causa di parecchi commensali inattesi. Questo colpì Vatel; disse ripetutamente: “Ho perduto l’onore; è una vergogna che non sopporterò”. Disse a Gourville: “Mi gira la testa, sono dodici notti che non dormo; aiutatemi a dare ordini”. Gourville lo aiutò quanto poté.

Quell’arrosto mancato, non alla tavola del re, ma agli ultimi commensali, gli tornava sempre in mente. Gourville lo disse al Signor Principe. Il Signor Principe andò fino in camera sua e gli disse: “Vatel, va tutto bene; niente era così bello come la cena del re”. Gli rispose: “Monsignore, la vostra bontà è il colpo di grazia; so che l’arrosto è mancato a due tavole”. “Niente affatto, ” disse il Signor Principe, “non preoccupatevi, va tutto bene”.

Viene mezzanotte: il fuoco d’artificio non riesce, coperto da una nuvola, costava sedicimila franchi. Alle quattro del mattino Vatel se ne va dappertutto, trova tutti addormentati, incontra un piccolo fornitore che gli portava soltanto due carichi di pesce di mare fresco; gli chiese: “E tutto qui?”. Gli rispose: “Sì, signore”. Non sapeva che Vatel aveva mandato a tutti i porti di mare. Aspetta un po’; gli altri fornitori non arrivano; la testa gli si scalda, crede che non avrà più altro pesce; trova Gourville e gli dice: “ Signore, non sopravviverò a quest’onta. Ho un onore e una reputazione da perdere”.

Gourville lo prende in giro, Vatel sale nella sua stanza, mette la sua spada contro la porta e se la passa attraverso il cuore, ma fu solo al terzo colpo, perché se ne diede due che non erano mortali, che cadde morto. Intanto il pesce arriva da tutte le parti: cercano Vatel per distribuirlo, vanno alla sua stanza, bussano, sfondano la porta, lo trovano annegato nel suo sangue; corrono dal Signor Principe, che ne fu desolato.

Il Signor Duca20 pianse; era su Vatel che s’imperniava tutto il suo viaggio in Borgogna. Il Signor Principe lo disse al re con grande tristezza; dissero che era un modo di rispettare il proprio onore alla sua maniera; lo lodarono molto, lodarono e biasimarono il suo coraggio. Il re disse che erano cinque anni che ritardava la venuta a Chantilly, perché comprendeva l’eccesso di disturbo. Disse al Principe che doveva preparare solo due tavole, e non farsi carico affatto di tutto il resto. Giurò che non avrebbe più tollerato che il Principe si regolasse così; ma era troppo tardi per il povero Vatel.

Il film di Joffe su Vatel è un film sul capitalismo.

La scena in primo piano è quella del suicidio di un uomo del 1600: ma il senso di quel suicidio è nella cornice entro cui matura,la società francese del XVi secolo,caratterizzata dalla logica moderna dello stato assoluto e del mercato[1]. Ovvero,nella carne del film, la corte di Luigi XIV e l’intrapresa del borghese: la rete delle figure che animano la scena della corte in movimento è la raffigurazione per immagini delle logiche di dominio e di impersonalità che l’assolutismo immettono nelle relazioni sociali,dando forme di ‘bonseance’ e ‘sociabilitè’ alla brutalità della violenza del potere illimitato della politica; invece Vatel,il personaggio Vatel, è la raffigurazione della complessa dinamica antropologica che sostiene l’affermazione della borghesia.

Egli è infatti

- sia il prototipo del conflitto in atto negli uomini ‘moderni’, proiettati sì verso un processo di ‘individuazione’ - non solo psicologica ma anche culturale e social-, ma anche soggetti al ferreo processo di ‘cosificazione’ della persona che si attua in Europa a partire dall’avvento delle logiche della modernità;

- sia esemplificazione dell’aporia cui porta questo ‘doppio codice’ di ‘liberazione’ e di ‘razionalizzazione’:il suo suicidio è un esempio di uno dei possibili esiti di questa aporia (il rifiuto di questo processo di ‘cosificazione’ della persona è una totalizzante nullificazione dell’esistente).l’altro implicito è ll totale asservimento alla logica della ‘realtà’.

Più analiticamente si può osservare in effetti che la cosiddetta società moderna espone alle sue origini -nello schema brutale ed essenziale della monarchia assoluta- la logica che sta al fondo del processo di laicizzazione e di modernizzazione in atto nell’Europa del tempo (e che ancora oggi riemerge nella globalizzazione neoliberista): il singolo individuo è solo uno strumento, che va ‘usato’ per realizzare migliorie del sistema generale,qui ed ora. Conta la ‘ratio’ dell’ ‘umanità’ (con i suoi scopi immanenti) non quella dell’uomo singolo concreto.

La razionalità laica (moderna) ha ben chiaro che la qualità di un sistema (di qualunque sistema) – quello che normalmente chiamiamo ‘ordine’ o ‘armonia’ – dipende non dalle caratteristiche specifiche dei singoli elementi del sistema ma dalla qualità delle relazioni che questi elementi intrattengono tra loro (dalla loro ‘messa – in –forma): non è che queste idee siano nuove, solo che fin allora,in effetti, questo ragionamento era stato applicato solo alle astratte perfezioni della geometria e delle arti,mentre adesso – a partire dal secolo XV – lo si estende al mondo delle cose, all’immanente. Non ci si accontenta più di intuirlo nella dimensione ideale del trascendente, ma lo si applica – lo si comincia ad applicare – al mondo concreto delle cose che accadono e variano, cioè all’ im – perfezione del ‘divenire’,visto ormai come il vero campo d’azione dell’homo faber, in modo da avvicinarlo alla perfezione dell’ ‘essere’ (l’ ‘ordine’ appunto).

E così le società europee dell’epoca cominciano a voler somigliare – sotto la spinta di indagini e riforme,se non rivoluzioni – al ‘mondo delle idee’,a tracciare disegni di utopia: l’effetto inevitabile è che le ‘cose’ che cambiano (in particolare le persone –umane) cominciano ad essere considerate non nella loro peculiare ‘differenza’ ma nella loro ‘categorialità’, non certo come ‘fini’ (nonostante l’umanesimo di facciata) ma come ‘mezzi’. Né più né meno di quel che succedeva nelle società premoderne,in cui il singolo era solo chiamato a ripetere copioni già dati: ma adesso c’è una consapevolezza di rappresentazione,una chiarezza di intenti e un cinismo d’azione che non lasciano più spazio a equivoci e sentimenti. Il singolo è sempre e solo subordinato al tutto della società,a partire dai ceti privilegiati :si pensi al trattamento che luigi XIV riserva ai nobili a Versailles, e che ben viene mostrato dalle apparentemente capricciose situazioni messe in scena nel film di Joffe[2]. È vero che a livello di intellettuali si parlerà sempre più di felicità come diritto umano da realizzare qui in terra e non in cielo; ma di fatto presto si evidenzia l’aporia di fronte a cui ci si trova. questo diritto si riferisce al singolo o al sistema?alla persona concreta o al popolo, alla nazione,alla società,alla gente? A entità concrete o a categorie che per essere sovra insiemi di rappresentanti differenti non possono non trascurare le differenze a favore delle equivalenze?

E in effetti uno stato moderno (nella sua laica consapevolezza che l’ordine sociale è affar di uomini e non di dei) dev’essere ab – solutus,libero cioè da vincoli che non siano quelli dell’interesse generale per realizzare qui e ora una qualche forma di ordine politico utile a far progredire il benessere della popolazione: la ‘ragion di stato’, per l’appunto, locuzione che non dice lo stesso del termine greco koinòn o di quello latino di res publica,in quanto riposa sulla distinzione tra la struttura che ‘razionalizza’ (lo stato,il paese legale) e il resto della comunità (il paese reale)e riposa sulla logica ferrea del logos progettuale e sull’arroganza illimitata del razionalismo alla cartesio. Le parti sono sempre in funzione del tutto;le variabili sono subordinate alle invarianti,le persone sono ‘cose’,cioè oggetti valutati come equivalenti,quindi sostituibili l’una all’altra. Il ‘popolo’ è fatto di ‘individui’ uguali,soggetti alle stesse leggi,senza tener conto di differenze

Entro questo quadro (di mentalità e di azioni) il singolo individuo, che ricorre alla stessa logica della progettazione razionale,dell’arroganza intellettuale dell’artifex capace di plasmare il mondo a sua volontà (ovvero di dare forma e diritto alla sua differenza), scopre anche che il suo personale progetto di differenza (il suo diritto alla diversità) si scontra con il progetto razionalizzante (di ordine) del potere, che appunto gli sottrae le sue ‘libertà, considerandolo con i criteri dell’equivalenza (per cui un singolo vale l’altro) e non dell’ambivalenza (per cui ognuno per quanto simile è comunque diverso dall’altro).

“- Vatel: Madame... madame... madame per piacere... Vi sentite male, madame? Fatevi preparare un infuso con questo... vi darà ristoro! - Montausier: Volevo che il vento smettesse di soffiare... L'ho fatto smettere! - Vatel: Penso che sia stato Dio... - Montausier: Allora forse Dio ha inviato me. È così importante tutto questo? - Vatel: Non è da tutti compiacere un Re, madame! - Montausier: Compiacere un Re non è difficile, è di nessuna importanza - Vatel: Come maestro delle cerimonie io ho il potere di salvare il casato del principe di Condè - Montausier: E quale sarebbe questo potere! - Vatel: Creare, stupire...”

Questo dialogo dimostra come Joffe ‘mette – in – forma’ a livello di pathos quel che avviene ai due livelli: da un lato un a rappresentante della corte ,disincanta ormai – c’è già stata la Fronda – e rassegnata malinconicamente ad un ‘dover essere’ senza vie d’uscita[3];dall’altro un borghese artifex…,un ‘esperto’,anzi un intellettuale di tipo rinascimentale che mescola le idee (contemplazione)alla vita attiva (azione); osserva studia sperimenta innova e conquista il controllo della complessità,vuole controllare la complessità,arrivando a immaginare la conquista del ‘potere’.

Nel linguaggio del tempo Vatel è un Maestro di Cerimonie: appunto un Magister[4] delle Cerimonie (che,a partire dalla cultura rinascimentale, sono le ‘forme’ che una società,un gruppo,un singolo deve acquisire per poter approdare alla consorteria dell’humanitas). Nel linguaggio contemporaneo è un ingegnere dei sistemi complessi,specializzato da una parte nell’individuare entro la liquidità apparente degli eventi il suo ordine implicito (la ratio),dall’altra nel progettare e nel realizzare procedure e strutture adeguate a trasformare un ‘desiderio’ umano in concretezza effettuale,in risultato efficiente.

Se questa è la sua funzione sociale,da cui si aspetta di aver riconoscimento e onore,dal punto di vista psicologico Vatel è il prototipo del borghese a cui ‘piace’ impegnarsi in queste imprese come mezzo di autorealizzazione: non agisce tanto per soddisfare il padrone (Condè) ma perché vive la situazione in termini di sfida: un problema complesso e difficile da risolvere come kairòs che gli consenta di mettere alla prova la propria capacità di elevarsi, di superare il limite che fin allora lo ha costretto. L’orgoglio (smisurato) dell’uomo che confida nelle sue forze – sensoriali e intellettuali[5] – e sente di poter vincere la complessità della situazione, di poter dare ordine al disordine[6]. E con questa fiducia affronta serenamente gli inconvenienti[7]i: la sua superiorità è proprio in questo sapere che ci sono e ci saranno inconvenienti rispetto al progetto elaborato,ma che ci sono sempre nella sua mente vien di fuga,vie nuove che metteranno comunque in ordine la situazione. Il borghese non si arrende alla tradizione:cerca e trova soluzioni ‘nuove’ (ecco il significato della parola ‘modernità’!).

E questa fiducia in sé,questa competenza nella ‘razionalizzazione’ lo portano davvero in cima alla società: entra a far parte del mondo dei privilegiati, partecipando da protagonista alle loro Cerimonie e feste. Insomma è una vita da ‘vincente’, come si direbbe oggi. Al punto che immagina di poter ambire al ‘potere’ quello di ‘creare,stupire’ e così condizionare la storia (modificare l’atteggiamento di Luigi verso Condè), di ‘fare la storia’[8]

Ma proprio questa ‘differenza’ raggiunta lo porta a scoprire in modo imprevedibile – nel momento di maggior successo - la logica desertificante e spersonalizzante che è sottesa a tutto il sistema della modernità. All’inizio,quando comincia la sfida, vive tutta la situazione nella dimensione adrenalinica dell’ ‘impresa’[9],della soddisfazione dell’autorealizzazione,senza percepire che lo stress che gli dà adrenalina (“non dormi da due settimane”, “sono pieno di ansia”) deriva non da un progetto di propria scelta,ma dalla richiesta ricattatoria del suo ‘datore’ di lavoro (Condè organizza la festa per poter uscire da una situazione finanziaria difficilissima):o forse lo capisce,ma si dà generosamente ad aiutare un padrone che vede come un amico in difficoltà. Ma quando ormai l’impresa volge felicemente al termine e il re,ammirato della sua efficienza, lo chiede a Condè come ‘tecnico’ necessario per realizzare al meglio le sue feste a Versailles,scopre chel entro questo mondo egli viene valutato non come ‘persona’ (un essere con le sue specifiche qualità di affetti, amicizia,orgoglio nel lavoro..) ma solo come ‘strumento utile’: è sì un bravo ’ Maestro di cerimonie’, ma solo un maestro di Cerimonie, appunto un ingranaggio necessario per far funzionare la ‘macchina Versailles. Una ‘cosa’ inerte,un pacchetto di ‘competenze’ speciali (per usare il linguaggio contemporaneo) da spostare in rapporto all’utilità del sistema, senza tener conto appunto della ‘differenza’ –delle volontà – del singolo che dispone di queste competenze.[10]

Detto col linguaggio marxiano si rende conto di aver subito un processo di ‘alienazione’: non è un Soggetto, ma un Oggetto dotato di valore non di ‘scambio’ (scambio che richiede un confronto tra soggetti autonomi,che discutono sulla base delle proprie specifiche necessità e aspettative) ma solo di ‘uso’.una volta immerso nel sistema moderno del mercato,l’individuo cessa di essere tale (con le sue differenze e ambiguità) per diventare ‘cosa’ che vale proprio per la sua indifferenziata ‘equivalenza’ categoriale.

Questo aspetto della reificazione è replicato nel film,come già accennato, nella figura di M.de Montaussier:da un lato è una persona dotata di una sensibilità sottile (reagisce con sguardi e pause alla vista di incidenti a danno della gente sottoposta alle prepotenze ciniche dei privilegiati) e di sentimenti personali (esprime una passione discreta ma decisa verso la persona di V. di cui sembra essere l’unica a riconoscere l’umanità e non solo la tecnicità asservita);ma anche lei è ‘preda’ del sistema,anche lei è ‘cosificata’. È sì parte dell’ordine privilegiato, ma subisce la volontà del Re come un oggetto inanimato: non può scegliere di fronte alle richieste del Re di passare la notte con lui,deve solo eseguire quel che sembra un elegante invito (bere una cioccolata calda[11]) per fare l’interesse del sistema generale (identificato nella persona materiale del Re:per mantenere l’ordine,il singolo a qualunque livello deve smettere di essere persona dotata di volontà, per diventare strumento). “Compiacere un Re non è difficile, è di nessuna importanza”:non fa differenza per una che è abituata a eseguire ‘regole’, a spersonalizzarsi nella rete della sociabilitè, della politesse. Lei ancor prima di V. ha conosciuto il processo di spersonalizzazione che domina le relazioni sociali all’interno del bel mondo: come nel mercato si scambiano merci per il loro valore d’uso in termini di equivalenza,così in questa corte le persone sono facilmente intercambiabili come una tazza di cioccolata[12]. A Versailles non esistono persone ma solo ‘funzioni’ ingranaggi’ appunto che valgono solo se fanno ‘funzionare’ la struttura, se si integrano nella ratio della struttura: allo stesso modo nello stato assoluto c’è un centro ab – solutus che decide ogni cosa e la piramide razionale della burocrazia che ‘esegue’.

Entro questo quadro di spersonalizzazione, la figura di Monsieur – nella sua espressionistica pratica della dismisura,dell’artificio,della trasgressione, del falso - contribuisce a evidenziare criticamente uno dei possibili effetti di questa disumanizzazione: contro il gelo delle passioni,contro l’imposizione della normalizzazione, si leva la difesa provocatoria della diversità, sia sessuale, sia di stile. Il carnevale,l’eccesso,la distruzione – l’ambiguità - sono le vie di fuga dall’alienazione dell’ ‘equivalenza’. Quel che i filosofi libertini del XVI secoli vanno rivendicando nelle pratiche ascetiche della ricerca e dell’etica,M. va cercando nella vita attiva, nel qui e ora, nel mondo dei sensi: anche lui persegue l’Assoluto della Libertà,la Perfezione della autorealizzazione, la Felicità una come vera e propria utopia,in parallelo al progetto di V:questi pensa alla autorealizzazione come identità economica culturale e sociale (in una impossibile risposta alla domanda ‘chi sono?),quello alla soddisfazione perenne del desiderio (cerca l’infinito della jouissance illimitata in esperienze contingenti e perciò limitate)[13]. Entrambi conoscono gli ostacoli sia nelle azioni umane sia nella casualità degli eventi. Anche qui, nella persona di M., il privilegiato è già inscritta la ‘disperazione’,la sfiducia metafisica nel risultato di questa ricerca:se in V. vige ancora l’illusione che i suoi sforzi riusciranno bene nel momento in cui anche gli altri uomini collaborano, in M. (fratello del Re) c’è l’assoluta consapevolezza che tutto finisce nel Nulla, che tutto è un Gioco. E c’è comunque un momento in cui le due esperienze apparentemente così diverse si riconoscono e si appoggiano e si sostengono: alle richieste pressanti di M. (che pretende secondo le logiche della sopraffazione vigenti tra gli aristocratici rispetto ai ceti inferiori) V. reagisce con l’abilità propria della società delle buone maniere, cioè attraverso l’uso accorto di codici di politesse e di esprit de finesse. La parola consente la sublimazione della sfida su un terreno comune,quello della riflessione filosofica della consapevolezza del ‘vuoto’ a cui l’uomo (barocco) sa di dover rispondere (il sublime):e si crea una complicità fattiva a danno dei cinici possessori del senso di realtà,arresi alla logica dell’adeguamento, dell’accettazione delle cose come sono,alla passiva assenza di resistenza e ricerca.

La figura che contribuisce a far diventare carne e passione queste parole di condanna a carico dell’assolutismo e del capitalismo è il marchese di Lauzun.. Con il suo sprezzante cinismo rappresenta in modo enfatico la spersonalizzazione che domina le relazioni sociali e politiche all’interno della modernità: è chiaro che il centro ‘ideologico’ del tutto nel film è il Re Luigi, ma la sua figura è proposta con le tipiche apparenze della ‘garbatezza’ della politesse della socialibilitè che mette in scena cioè armonia,senso del limite,sì che nelle parole appare amabile e discreto addirittura. Invece la ‘caricatura’ della figura di Lauzun in termini di ‘cattiveria’ propone un topos specifico di ogni struttura sociale di potere: l’esecutore, la spalla,in quanto strumento ‘ puro’, in quanto lontano dalla problematicità e dalla consapevolezza della cornice che dà senso anche a scelte dure e difficili da condividere, si limita a ‘ripetere’ gesti e parole nella loro asciutta assenza di ambivalenza. Gesti che somigliano a pulsioni. Non desideri (che richiedono tempi ) ma spinte ‘naturali’ di das Ding.

Il risultato dell’irrompere continuo di questa figura sulla scena delle armonia progettate e realizzate dalla corte e da V. è che anche lo spettatore coglie con facilità come l’eleganza del Potere è sempre sostenuta da un rigido ricorso alla Violenza,in tutte le sue forme ‘civilizzate[14]

Analisi

Ebbene il protagonista del film di Joffe, Vatel, è appunto un borghese ‘esperto’ nel campo della razionalizzazione,ma non entro l’ambito della scienza o della tecnica tradizionalmente intesa,bensì in quello delle relazioni sociali. Vatel è infatti un maestro di cerimonie,figura che si afferma appunto nella modernità al posto degli antichi chierici che –nella cultura sacrale – detenevano e custodivano gelosamente le specifiche ‘competenze’ necessarie per gestire i ‘riti’ (appunto le cerimonie): egli è quello che oggi viene probabilmente chiamato col termine di ‘organizzatore di eventi’ (event planner,stage manager) e che viene ‘formato’ in appropriati corsi nelle facoltà di scienze della comunicazione o in master di management.

Vatel di fatto nel film è presentato come un master,un maestro: questa era in effetti la denominazione tipica delle società basso medievali per indicare l’artigiano’ che emergeva tra gli altri per la sua bravura.[15] È un capo, che ha la responsabilità affidatagli dal suo datore di lavoro (il principe di Condè),di organizzare un evento irripetibile,la permanenza di tre giorni del Re Sole nel castello di Condè.

L’aristocratico, che nella società medievale esercita il suo potere – in genere privilegi concessi dal re – in totale autonomia, qui si rende conto che è ormai uno specialista[16] (un soldato,un bravo soldato certo ma solo un soldato) e che in attività sociali diverse dalla guerra occorre un altro ‘specialista’, inevitabilmente diremmo noi un tecnico,inevitabilmente un borghese del terzo stato (di quelli che una volta si distinguevano per essere gli unici a lavorare,fino ad essere chiamati laboratores).

Un maestro di cerimonie è un ingegnere gestionale,ma anche un architetto,uno sceneggiatore,uno chef,un regista teatrale. È un supervisore che progetta una serie di attività e assegna a vari specialisti i vari ambiti di competenza: ma è comunque ancora ,diremmo oggi, capace di interdisciplinarità o transdisciplinarità.

Ma vediamo come queste idee astratte sorreggono le scelte formali del regista.

L’INIZIO

  1. La cornice

Una voce: è come lo ‘spirito’,staccato da un corpo. È l’io penso cartesiano messo – in – scena:puro suono,puro pensiero,lontano dalla res extensa

Poi un soffitto di palazzo ricco,anzi una lunetta,e con movimento dall’alto verso il basso,un’ inquadratura di dettagli, a pezzi, di oggetti da scrivania. [17]infine un foglio di carta e una penna che scrive una lettera. È il potere che emana ordini,attraverso la parvenza del ‘politicamente corretto’ eloquio della sprezzatura.

Esterno: movimento macchina dall’alto verso il basso: cielo azzurro grigio . sullo sfondo a sinistra,dal basso l’angolo grigio ferro di un palazzo secentesco,con tetto aguzzo e cornicione classicheggiante; primo piano al centro di un’erma e,a destra, di una cupola coronata,con protiro chiaro. Il potere qui comincia a mostrare le sue icone:dietro un cancello lanceolato, la distanza del Palazzo (pasolinianamente simbolo della politica),a cui si affianca una galleria,simile ad un arco di trionfo,con le forme barocche della cupola a più curve)e una testa di Minerva che rappresenta la razionalità ‘pratica’, tecnica,che si distanzia di fatto dalla dichiarazione di logos apollineo implicito nei movimenti di macchina.

  1. Primo piano

La prima immagine che riguarda V. direttamente ritrae mani che si lavano, la seconda la parte inferiore del corpo:corpo pesante,piedi per terra, appunto.

Ma lo sfondo che arricchisce di senso queste immagini è costituto da una piccola serie di oggetti / cose,cioè dettagli della stanza in cui vive V.:

  • Uno specchio,in cui si riflette una parrucca su un manichino

  • Un bacile (entro cui delle mani si lavano)

  • Uno mano che raccoglie un rotolo (le carte del progetto)

  • Una chiave posata su un libro,un blocco /quaderno(macchine

  • Un pappagallo che prova a troncare la catena che lo lega al trespolo

Azzardiamo sulla base dello sfondo che abbiamo precedentemente indicato la funzione di senso di queste scelte particolari nella sceneggiatura del film:le immagini del corpo isolano due elementi (le mani,i piedi) che insieme possono voler indicare che siamo davanti ad un uomo che da un lato opera (ma secondo la logica della ‘sottrazione’ e non della confusione, dello sporco. Le sue mani agiscono in modo pulito,in modo da creare una realtà senza opacità;si potrebbe pure ipotizzare che sia un ‘segno’ della ‘pulizia’ etica di questo uomo (mani pulite)),dall’altro ha i piedi ben piantati per terra (ovvero è uno che guarda all’immanenza e non alla trascendenza).

Lo specchio e la parrucca ci propongono lo schema proprio del vivere sociale del Seicento: nel ‘gran teatro del mondo’ ci si ‘mette – in – forma’, ci si costruisce una forma ‘bella’, consapevolmente diversa dal divenire del nostro essere. Nello spazio privato si è ‘autentici’,mentre nello spazio pubblico si assume una ‘maschera’ che crea ‘grazia’,superficie che comunica all’Altro un ‘ordine’ secondo un codice comune,un codice che crea la comunità,anzi la comunicazione. Lo specchio è segno della inevitabile consapevolezza che l’identità ci mette a confronto con l’altro (Lacan),ovvero con l’Altro che è in noi stessi –prima di tutto. Vivere in società vuol dire insomma recitare,vuol dire assumere la consapevolezza della doppiezza della nostra identità:da un parte quel che siamo davvero (a noi sconosciuto,nonostante tutto9,dall’altra l’immagine che appare (superficie appunto). Naturalmente il fatto che la parrucca sia sul manichino ci assicura che il personaggio in questione è ‘autentico’ in questa scena,ovvero si muove secondo la sua ‘autentica’ qualità distintiva: sta solo nella sua camera,nessuno che guarda,libero di muoversi secondo il suo pathos.e gli oggetti presenti e lentamente inquadrati in dettaglio dalla camera stanno lì a sottolineare come in una ‘impresa’ rinascimentale le caratteristiche del personaggio in scena.

Le carte,il libro ci indicano che è un ‘intellettuale’:vive tra libri,le carte sono segno di un pratica di pensieri analitici, non delle procedure analogiche della situazione concreta dell’immediato in cui funzionano i circuiti ‘paralleli’,ma quella astratta e laboriosa della riflessione, della scrittura, che dà forma alle cose fluide.

La chiave spostata:è metonimicamente un segno della capacità del libro di ‘aprire’ mondi,segreti,possiede la ‘chiave’, come si dice nell’enigmistica, per sciogliere le situazioni intricate.

L’orologio,in alto, sottolinea la dimensione laica del tempo borghese:una vita scandita dalla razionale suddivisione del tempo in rapporto alle categorie umane del lavoro,del mercato, dell’impresa, della ricerca, non a quelle naturali della luce e del buio. L’orologio è il segno più stringente della modernità che ‘mette – in – forma’ la natura,costringendola a stare ai suoi ‘ritmi’: è l’orologio (la divisione artificiosa del tempo) a determinare il cambiamento, il progresso. L’uomo con l’orologio è l’uomo che controlla il tempo,che ‘ fa la storia’ quindi.

Infine il pappagallo con la catena: certamente è l’icona tassiana del giardino di Armida secondo cui si sottolinea da un lato la ‘meraviglia’ di un essere che si sottrae alle categorie della ratio umana (è uccello che invece di cinguettare ‘dice parole’); dall’altro come il pappagallo se parla,di fatto lo fa solo in modo meccanico,con la ripetizione sonora di suoni non di significanti,senza consapevolezza del senso di quei suoni. È l’immagine dell’intellettuale che si limita a muoversi entro campi noti,ripetendo cose antiche,e quindi (in epoca di controriforma) a sopravvivere sotto il controllo feroce del potere (catena).

La sequenza si conclude con un piano americano di V. tra due pappagalli e una finestra aperta che affaccia su un giardino all’italiana del castello: appunto una natura antropizzata dall’uomo a propria immagine e somiglianza,secondo i canoni dell’astratta razionalità . viali,disegni di siepi geometriche,fontane: il locus amoenus. A cui si guarda … con desiderio. È l’utopia (sociale,politica) che si fa immagine, che attraversa tutto l’immaginario della modernità europea: il locus amoenus è lo ‘stato ideale’ cui si punta,ma facile da riconoscere nella sua facile iconografia: acque correnti come ‘vita’; ombra (alberi..) come sicurezza e sollievo; poesia o canto per indicare l’ordine armonico e l’amore come trionfo dell’Altruismo. Ecco questa immagine sta ferma davanti al pensoso Vatel:dopo un po’ si risveglia dal sogno del futuro (pubblico,privato),apre la porta della stanza e si tuffa dentro la rete di relazioni e di attività che fervono nel Palazzo, cioè nel divenire.

Da un lato l’autentico’ dello spazio privato (una sorta di isola ) e dall’altro la confusione e conflittualità dello spazio pubblico:da un lato un intellettuale che pensa,dall’altro una massa di persone che ‘operano’, o nel senso banale del lavoro manuale o in quello conflittuale degli ordini,degli intereressi,dentro cui l’intellettuale si deve muovere fattivamente,deve risolvere problemi concreti, deve ‘agire’.

E chi sa agire in modo lucido entro questo quadro (con ‘merito’) conquista ‘onore’ (come una volta i cavalieri in battaglia) e anche il potere. Ma il Potere politico,già in atto nella società, è presente nel film fin dall’inizio, come cornice determinante a indicare da subito allo spettatore attento la dinamica della società umana: ancor prima della scena della camera di V., c’è una voce senza volto, che dice parole in effetti scritte su una lettera,infine firmata dal marchese di Lauzun: il potere è ‘impersonale’ Logos che superalitat, che dall’alto impartisce regole desideri capricci imperativi. un torchio per la chiusura finale del plico a sottolineare la durezza implacabile delle parole. Per contrasto, ancor prima della lettera appare ,come prima immagine di tittol il film, una lunetta di soffitto che ritrae una ninfa entro uno scenario fatato di natura felice:il locus amoenus, la grazia, l’ordine mitico che rappresenta la icona moderna (di ispirazione classica) dell’utopia, dell’ideale di quiete immanente da realizzare.

Il potere si dà appunto il compito di puntare a questo obbiettivo di ordine:e per realizzarlo si libera delle passioni, che distorcono dalla ‘ratio’ (linea dritta che porta al risultato),diventa una ‘non persona’,ovvero è un sovrano che dimentica le regole ‘personali’ della trattatistica della tradizione (clemenza,moralità,pietà,compassione)per agire in modo impersonale e obliquo: la sua voce è quella della simulazione (buone maniere vs violenza)o della dissimulazione,è parola scritta che emerge dalla occasione per farsi regola astratta: la burocrazia è carta, non violenza. La violenza è certo presente ma nella retorica, nel dire a per intendere b: così le immagini partono da un locus amoenus vero e proprio raffigurato nel soffitto,ma le parole dicono il disordine reale della contraddittorietà, della superficie che non dice il profondo.

Del resto fin da queste prime scene,tutte le riprese sono caratterizzate da una serie di angolature strane, di sghimbescio: è appunto la prospettiva secentesca della ‘meraviglia’ della stranezza, che nasce dalla consapevolezza che c’è distanza tra le parole e le cose,dalla necessità di guardare il dettaglio (il finito) per scoprire il mistero del senso del divenire. Vie trasversali per guardare, per sottolineare quindi una visione delle cose nuova appunto: le scarpe ad esempio..

LE SCENE FINALI

  1. Il suicidio liberazione: nel regno ordinato di uno spazio privato (su cui regna la volontà del soggetto) V. installa il teatro della tavola imbandita riccamente (con piatti di pesce) prima del gesto finale. Il cibo è certamente segno di ‘morte’ : è trasformare quel che è fuori di noi in quello che siamo, nel nostro corpo;mangiare comporta la morte dell’ altro,sempre. Nel linguaggio della biologia contemporaneo è neghentropia, ovvero meccanismo di riproduzione d’ordine in via di estinzione. Ma la tavola imbandita è molto più che rispondere al puro bisogno di sopravvivenza,sopratutto tenendo conto del fatto che V. ha deciso di morire: se mangia non è certo per bisogno; è solo un gesto di ‘stile’. Mors tua vita mea:con stile, appunto, con la qualità aggiunta dei modi raffinati. Lo stesso stile che caratterizza il suicidio: spade!chiaro richiamo alla cultura del ‘cavaliere’ antico, alla sua etica dell’’onore’con possibile rinvio postmoderno all’ harakiri giapponese: nel film il gesto appare come una replica delle morti stoiche dell’epoca dell’Impero Romano,quando i sapienti non trovavano altra via per sottrarsi ad una situazione di insostenibile ‘servitù’. Il borghese V. imita i nobili della classicità,anticipando il gesto scandaloso dei romantici che danno spazio al furore delle passioni,all’eccesso del pathos per affermare l’intransigenza del loro ethos (l’onore da difendere)

  2. Il biglietto per la M. però suggerisce più realistiche e vitali vie di fuga:l’allontanamento dalla corte, la scelta dell’isolamento, la natura, la campagna e il vino. È l’altra residuale utopia della tarda modernità: la new age del corpo riscoperto come strada maestra per lo spirito. la pratica dionisiaca contro la rettilinea implacabilità del logos apollineo:la ricerca del senso della vita nei sapori mescolati di vite e ciliegi,piuttosto che nelle rigide categorizzazioni della polis. L’abbandono al dionisiaco corpo nietczhiano, alla con -fusione. Ma non è la soluzione di V.,che si sente incatenato all’ordine dispotico di Luigi: è il suggerimento per Madame M.,per chi è in grado prima o poi di fare scelte e di costruirsi ‘libertà’ in spazi lontani dalla corte. Malinconia quindi,isolamento nei movimenti di M. che lascia le amiche e poi in carrozza,lentamente parte,verso un destino però ancora di ‘cosa’.

  3. Infine l’ultima scena è semplicemente ,nuovamente una lettera e una voce che legge. La lettera: è vero è morto Vatel, ma nella macchina che è la società di corte (lo stato moderno) quando si rompe un ingranaggio, ci si limita a sostituirlo. L’importante, l’unica cosa che conta, è l’efficienza del Sistema: alla fine V. viene sostituito da Gourville è dopo le ritualità delle buone maniere tutto continua come prima. V. ha appena fatto in tempo a capire, nel film, che in quella / questa società domina l’ In - differenza,il principio di equivalenza, per cui a V. corrisponde esattamente Gourville, per quel che deve fare:la festa,il banchetto,la cerimonia,quello che oggi la mondanità chiama l’Evento, mostro hobbesiano che informa a se tutto e tutti,che annulla i sentimenti e le differenze,in nome del proprio unico obbiettivo:il Successo.

IL CIBO

Presenza notevole ma non determinante nella storia: è il campo in cui si esercita il genio di V.,certo non come cuoco o chef, ma come organizzatore.

Frequenti sono le scene in cui appaiono cucine e cibi: banchetti e preparazione di banchetti. Da una parte i privilegiati, dall’altra la massa dei lavoratori. Da una parte chi si limita ad accumulare ‘sensazioni’ ed ‘emozioni’ (spettacoli per l’occhio, per l’orecchio,per il gusto e l’odorato),dall’altra chi lavora al fuoco,ai piatti, fino rimettersi la vita.

Anche questa scelta narrativa di Joffe,apparentemente banale, di fatto rinforza la struttura barocca del film ,che non si limita infatti ad accogliere stilemi del barocco (come le inquadrature sghembe,l’attenzione ossessiva ai piccoli dettagli,allo ‘strano’ modo di guardare le cose fuori di ogni regola prospettica unitaria) ma costruisce appunto la vicenda in modo ‘barocco’: c’è un centro ma la vicenda non procede linearmente verso la sua chiara evoluzione, bensì si aggrovigliano qua e là diramazioni,aggiunte, dettagli appunto, che finiscono per ‘complicare’ la scena:non c’è solo la vicenda di Vatel (e della sua attrazione per MJ ma tutta una serie di ‘storie’ meno tradizionali, meno ‘narrative’ che appaiono solo per poco,ad arricchire lo ‘spazio’ della vicenda,ovvero il ‘ quadro’, la cornice che renda senso alla vicenda principale. Appunto la doppia scena del cibo è in questo senso esemplare: la tradizionale attenzione al cibo coincide con il momento del ‘mangiare’ dell’ingoiare. È appunto l’atto dell’animal che ingoia energia,in qualunque modo: e appunto le scene dei banchetti e degli spilucca menti sono costruite con la tecnica dell’accumulo,della variazione continua della situazione. Nessuna specifica attenzione a questo o quel manicaretto:lo spettatore vede i tavoli imbanditi,vede le bocche che macinano,vede colori e sente suoni, vede scenografie ma il mangiare è appunto solo una delle componenti della ‘recita’ in atto. Certo la più importante sul piano antropologico (mangiare vuol dire sopravvivere), ma contornata da una ritualità che lo trasforma da atto animalesco ad atto umano: è potere che si mette in scena, il gran banchetto è il gran Re che trionfa sulla fame,sulla miseria. Come già accennato, è il mito della Cuccagna che diventa realtà.

Ma mentre nelle mitografie ‘povere’ si immagina che tutto il cibo facile derivi dalla benevolenza divina (si immagina che cioè in qualche modo si modifichino le leggi ‘naturali’ del labor e della scarsezza in direzione della facilità e dell’abbondanza),in questo Mito Laico del Gran Banchetto Reale la realizzazione deriva ,’laicamente’, dall’uomo stesso, che faber com’è, razionalizza quel che esiste nella natura: e come nel giardino all’italiana costringe le piante a seguire precise libee dritte fino a prendere forme ‘ideali’ di cerchi quadrati ecc, così nella struttura sociale l’homo faber dà ordine alla società,portando alla luce le regole che danno vita alle strutture sociali, regole appunto implicite nelle comunità tradizionali e per lo più giustificate con rinvii alla volontà divina, e laicamente le ‘mettono – in – forma’ in modo da creare un ‘progresso’. Semplicemente l’homo faber / oeconomicus capisce che l’ordine dipende dalla ‘discrezione’ ,dalla possibilità e volontà di separare quel che appare confuso, di ‘categorizzare’: e allora lo stesso si fa per la società stessa. Ci sono stati sempre i ricchi e i poveri: adesso più intenzionalmente si gioca proprio su questa distinzione. I ricchi sono tali non per volontà divina ma perché ci sono i poveri che lavorano per loro.

E il film appunto proponendo due scene narrative di fatto fa opera di ‘svelamento’ su questo processo: il ricco che festeggia la sua cuccagna,vorrebbe ignorare le ‘cause’ umane della cuccagna;ma V. e la cucina e i suoi collaboratori mettono in campo il backstage della vetrina, proponendo allo spettatore una visione analitica dell’ ‘evento’ e della sua genesi. Come del resto oggi:esistono i ricchi e i poveri, le nazioni ricche e le nazioni povere,quelli che ‘godono’ della cuccagna e quelli che sgobbano:ma questa distinzione è l’esito non di particolari meriti (i ‘privilegiati’ del Seicento sono semplici eredi di ‘privilegi’ antichi) ma di rapporti di potere, di ‘comunicazione’ di potere, dell’adesione a modelli culturali (i valori della nazione,l’etica del lavoro,la sacralità della politica) e di una ‘reale’ sopraffazione’ nascosta e giustificata da ‘retoriche’ di vario tipo.

Chi mangia quindi e chi lavora. Ecco il ‘senso’ del cibo in questa storia barocca.

Paradosso dei paradossi qui è messo in scena la Cuccagna,ovvero il trionfo corporeo della società umana dei morti di fame ma una Cuccagna goduta dai potenti, proprio a danno di coloro che la sognano.

E nella rappresentazione si evidenzia quanto costi (a chi lavora,a qualunque livello) il ‘piacere’ del cibo:l’ansia meticolosa della ratio progettuale di V. (della borghesia che organizza e produce efficienza),la lena instancabile (del popolino che manualmente taglie,spacca,corre ecc.). La cuccagna quindi scende definitivamente dal regno dei sogni per disporsi a portata di mano di chi detiene il potere:cinismo,impersonalità,razionalizzazione,efficienza,efficacia,merito, carriera sono le parole chiave che consentono di accedere a questo mondo colorato, divertente, vario, spettacolare.

La scena quindi vede spesso accavallarsi le tavole imbandite dei nobili e le fucine alchemiche della cucina in cui si addipana ogni resistenza:e viaggiatore di ventura attento e ansioso V. che si muove dall’uno all’altro mondo (dall’Ordine Artificiale dell’ homo oeconomicus al Disordine frastornante e rumoroso dell’operosità, dell’industria’ -e viceversa): appare - ed è - il deus ex machina del sistema,che mano a mano che attinge informazione sulle imperfezioni e sui desideri del mondo apollineo (del Re Sole, cioè Febo Apollo), torna a immergersi nel rumor confuso – ma produttivo - del mondo vulcanico del labor, per farne emergere con lucida progettualità questa o quella soluzione ‘nuova’ ma sempre efficace.

Il maestro di cerimonie è in effetti un esecutore,mentre pensa di essere un faber. È responsabile, si sente responsabile del risultato dell’impresa. Ma il fine non è il suo bensì del padrone (Condè):si limita appunto a supportarlo con le sue ‘competenze’ che mediano tra il desiderio astratto del principe (voglia di avere soldi per pagare i debiti) e la soddisfazione (avere i soldi). È artifex che media con le forze che vengono dal basso a disturbare i progetti[18]. V. è in fondo il prototipo del nuovo sacerdote della nuova religione laica dell’economia: pontifex anche lui, nel senso che crea relazioni (altrimenti possibili solo con la forza brutale) tra l’alto (i privilegiati,i potenti) e il basso (gli esclusi,i poveri, i diseredati).

Non a caso è l’unico di cui il film mostra con insistenza lo spazio privato sottolineandone gli oggetti/ simbolo: orologi,libri soprattutto. Uno che prima legge e pensa,poi agisce e razionalizza dando ordine umano al tempo naturale[19]

La cucina appare un enorme antro, simile quindi alle grotte delle streghe,ai laboratori dell’alchimista:non ci si sofferma (salvo la questione della crema Chantilly) su singoli piatti,quanto sull’azione continua di controllo che V. opera su tutte le varie molteplici attività specialistiche necessarie alla realizzazione del rito / spettacolo dei privilegiati, Si muove come un moderno project manager, continuamente teso a rendere flessibile la sua unità di lavoro,strutturata quasi come una rete che aut organizza in tanti nodi apparentemente compartimentali ma che a lui si connettono,che lui connette nella sua ‘visione’ globale del progetto.

Fuori,nel mondo della luce ‘naturale ‘ dei giardini o della luce artificiale delle candele, si mangia e ci si diverte (giochi,scherzi,trame,pettegolezzi);dentro la materia si fonde e confonde,quello che è separato viene fuso, quello che è naturale viene trasformato[20]. La visione della cucina è in generale effettuata con un movimento macchina orizzontale che consente di rappresentare due elementi strutturali dell’intrapresa, dell’industria moderna: l’operaio manuale, quello che sta alla ‘catena di montaggio’ ‘sta’ fermo al suo posto,specializzato com’è a ripetere la stessa operazione;la ‘mente’ che progetta e coordina invece si muove e collega. Stare vs muoversi.[21]

La mente ‘sequenziale’ di chi progetta (del manager) è capace -fuor di metafora anche appunto mentalmente di ‘andare’ in vari ‘luoghi’ e connetterli: cert’è che V. nel suo movimento orizzontale all’interno della cucina continuamente ‘assaggia’ – per ‘sapere’- (per avere il ‘senso’ delle cose- la conoscenza quindi procede prima di tutto attraverso iu sensi, attraverso il corpo che si sposta e contatta l’Altro,sia come persone, sia come dati materiali delle situazioni), ri - assaggia per scegliere (mano a mano che i sensi gli forniscono informazioni che la sua memoria gli consente di confrontare con schemi e frame, l’elaborazione procede attraverso confronti fino alla valutazione e alla decisione)[22].

È tramite il corpo (vedere,gustare,sentire) che s’attrezza a rispondere alla sfida:la cucina è un’arma prometeica.

Grande spazio ovviamente nelle scene di cucina ha il fuoco in tutte le sue varie forme. Alla presenza del fuoco che, come lo spirito, "solvet et coagulat", gli elementi si uniscono e si dividono, le cose si assimilano o si separano fra loro. Il fuoco che di per sé distrugge ogni cosa,una volta ‘analizzato’ e ‘categorizzato’ dal Logos,diviene strumento creativo dell’ars e motore di di nuove forme.

Le pentole che bollono,gli ‘operai’ che si impegnano ricorsivamente fanno della cucina una ‘figura’ della fabbrica moderna,una sorta di ‘catena fordista’.

È con V. che comincia a rivelarsi come la cucina lungi dall’essere un universo caotico, in cui tutto e il contrario di tutto possono essere mischiati (questo l’occhio superficiale dello spettatore vede nel rapido movimento macchina orizzontale che accompagna il continuo andare di V.), come in un unico calderone ove cuoce il terribile minestrone del brodo universale, si rivela un "sistema chiuso", dotato di rituali e regole precise, che vanno rispettate, oppure violate, ma solo dopo esser state ben apprese.

Queste regole e questi rituali prima di essere ricette, sono cultura, conoscenza di varie discipline, come cerca di dimostrare V. ad esempio - al bambino che lo segue[23]. V. non si dedica feticisticamente,con il riduzionismo estremo della technè,a questa o quella specifica elaborazione di pietanze: sovrintende al tutto e interviene solo creativamente per risolvere problemi.

Così,l’unica ricetta di cui nel film si dice ,la crema Chantilly., viene mostrata proprio come esempio di problem solving, nel suo originarsi dal caso sventurato di una perdita (uova andate a male), per dimostrare quanto conti nel cucinare la capacità di risolvere in modo autonomo le situazioni, piuttosto che la pedante ripetizione[24]. Se è vero che le ricette sono, in cucina, ciò che per Platone, in filosofia, erano le idee, ossia modelli intellettuali, dotati di una loro forma e di una loro conoscibilità specifica, ebbene V. da un lato conferma questa ripetizione di modelli ,dall’altro inventa, innova. Le ricette rimandano ad un universo ‘assoluto’,fatto di elementi identificabili e riproducibili (sull’asse dell’ ‘equivalenza’ secondo la procedura della standardizzazione che caratterizza la modernità). Ma è dalla situazione, dall’esperienza che arriva la creazione,l’innovazione. Come propone il Barocco,è l’ars,la technè, che fa la ricetta,non l’ontologia.

Certo da tutto il movimento di V. tra cucine e sale da pranzo, si rileva infine la procedura fondamentale che è alla base della cultura moderna:il risultato di qualunque azione (come di un piatto, per esempio un timballo o un soufflé) è sempre superiore alla semplice addizione dei suoi ingredienti. Una battaglia,uno scritto,un uomo è un sistema complesso autorganizzantesi: secondo Wittgestein "L'uva passa" può anche essere quanto vi è di meglio in una torta; ma un cartoccio di uvette non è migliore di una torta; e chi ce ne offre un cartoccio pieno non per questo sarà in grado di cucinarci una torta - e tantomeno di fare qualcosa di meglio". Così la massa di cuochi impegnati a ‘sudar fuochi e a lavorar metalli’ nonostante tutto non sono in grado di realizzare un banchetto:il singolo piatto per quanto ben fatto non vale se non è ‘messo – in – forma’ con altri piatti,con il tempo e lo spazio, e gli altri sensi e la mente.

Del resto se in greco il cuoco si dice màgheiros, "colui che impasta", da una radice mag che risuona nel nostro "mangiare", ma soprattutto nel tedesco machen e nell'inglese to make, ossia nel più generico "fare",in greco logos ha a che fare con lego,ovvero con scegliere e combinare. [25]

Ecco la cucina moderna: ricerca di ‘assoluto’ (perfezione) di un modello fuori dal tempo e immutabile, così come una legge di fisica, che vale in o0gni tempo e luogo.

Ma nella consapevolezza che l’esperienza dell’immanente, che è non finito (cfr. barocco), sta lì sempre a ostacolare e sfidare continuamente questa ricerca

[1] Nel corso del sei – settecento emerge una nuova rappresentazione del potere: non più sacralità /potere ma sapere / potere. Se prima il sapere - che esiste ovviamente sempre in ogni società umana – è ammantato di mistero per i profani,nel senso che è proposto come una emanazione elitaria di ‘rivelazioni’ divine per pochi privilegiati, a loro volta ricoperti di aura, con il diffondersi della cultura laica della modernità il potere prende sempre più l’aspetto dell’efficacia e dell’efficienza: esso tocca a chi ‘sa’ risolvere i problemi, che in questo mondo in genere dipendono solo da una catena di cause immanenti e che per essere risolti positivamente richiedono appunto che ci sia qualcuno che - senza attingere i misteri del sacro - sia capace di trovare le relazioni ‘razionali’ tra le cose che accadono. Trovare queste relazioni –grazie alla ragione – è propriamente l’arma dell’uomo contro il divenire apparentemente casuale delle cose: l’uso della ragione determina il successo (con i metodi dell’induzione oltre che della deduzione) nei vari campi della realtà sociale. Così se c’è un cattivo raccolto non ci si limita a pregare Dio chiedendo che qualcosa venga dal cielo (il miracolo),ma si cerca di capire quali sono le cause immanenti del fenomeno e di intervenire su di [1]esse (Machiavelli sa che per evitare le alluvioni gli uomini devono non pregare ma ‘fare’ delle dighe:la ratio consente loro induttivamente di disegnare la caratteristiche del fenomeno nelle sue variabili fino a dar loro la possibilità di intervenire sul processo in modo efficace con l’edificazione dei dighe). Insomma si crea la cosiddetta sindrome sapere – potere formula che appunto sintetizza la novità fondante della società moderna e della cultura borghese. Naturalmente questa dimensione è stata largamente studiata e rappresentata dagli studi di sociologia della cultura, di epistemologia, di antropologia, di filosofia della scienza,fino alla elaborazione dell’icastica formula illuministica dell’intellettuale ‘ legislatore’ quale icona della trasformazione in atto. L’homo faber che ‘fa la storia’ sotto la guida degli esperti che scovano le ‘leggi’ nascoste della natura e modificano in meglio le condizioni di vita dell’umanità. Ora però tutto questo si verifica in effetti anche,se non soprattutto, ai livelli meno ‘intellettuali’ della società del tempo: in tutte le pratiche sociali ed economiche avanza sempre più il verbo trionfante della ‘razionalizzazione’,cioè della pratica di modificare le cose del mondo fluido attraverso il ricorso alla ratio,ovvero al controllo delle connessioni causali finora nascoste che rendono tutte le pratiche umane possibili più efficienti. Così nella strutturazione dello stato moderno si capisce che l’ordine sociale sarà realizzabile soprattutto se il potere viene unificato secondo la forma piramidale della geometria,ovvero viene annullato il particolarismo (che agisce sulle singole situazioni ma crea una confusione di regole che contribuiscono a determinare a livelli meno locali conflitti e ulteriore inefficienza, ovvero disordine, come è più che evidente in occasione delle guerre di religione. La ratio piramidale contro la ratio dei privilegi, dunque. E le tecniche razionali per realizzare questo passaggio dal molteplice all’uno sonol’esercito (cui solo spetta l’esercizio della violenza),ma soprattutto la burocrazia (una struttura piramidale di insiemi e sottoinsiemi che a scalare mettono in pratica le decisioni dell’unico centro).E se l’esercito continua ad essere un campo d’azione riservato ancora – salvo la bassa forza di ‘esperti’ professionisti ‘ mercenari specializzati (proprio secondo il principio borghese della ‘competenza’ che si va affermando in luogo della eredità di rango)- fondamentalmente ai ‘privilegiati’ aristocratici (che fondano la loro ragion d’essere proprio sulla capacità di dar sicurezza al resto della popolazione),ebbene è soprattutto la burocrazia che nelle nuove competenze amministrative (consistenti nell’eseguire la volontà del ‘centro’, non nel prendere iniziative) richiede esperti capaci appunto di ‘razionalizzare’ i sistemi di riscossione,le pratiche giudiziarie, le istituzioni,le varie strutture di applicazione del potere fino ad assicurare rifornimento finanziario e ordine sociale. Insomma la burocrazia fin dalle origini richiede quelle capacità che oggi si indicano coi termini di engineering e management. Ebbene il protagonista del film di Joffe, V., è appunto un borghese ‘esperto’ nel campo della razionalizzazione,ma non entro l’ambito della scienza o della tecnica tradizionalmente intesa,bensì in quello delle relazioni sociali. V.l è infatti un maestro di cerimonie,figura che si afferma appunto nella modernità al posto degli antichi chierici che –nella cultura sacrale – detenevano e custodivano gelosamente le specifiche ‘competenze’ necessarie per gestire i ‘riti’ (appunto le cerimonie): egli è quello che oggi viene probabilmente chiamato col termine di ‘organizzatore di eventi’ (event planner,stage manager) e che viene ‘formato’ in appropriati corsi nelle facoltà di scienze della comunicazione o in master di management.

[2] Quel che sembra capriccio è in effetti una forma raffinata di comunicazione,rivolta ovviamente prima di tutto ai nobili stessi ma per rispecchiamento alla diversi ceti sociali che gravitano intorno ad essa:la corte ha fatto proprio,nel secondo seicento, lo stile di vita dei salotti nati all’inizio del secolo,cioè le ‘buone maniere’ come forma di crescita di civiltà e di ordine sociale,sostituendo come ‘discorso’ di potere alle maniere forti della violenza sanguinaria delle guerre di religione del secondo Cinquecento le ‘eleganze’ manierate del ‘bon ton’, del ‘bon mot’; ma queste regole non diramano dalla cooperazione del salotto, ma dalla ferrea e lucida strategia del sovrano del sovrano,che è ferocemente cinico nella sostanza delle decisioni in vista dell’interesse dello stato,ma estremamente amabile nella comunicazione in superficie. Come dire le ‘parole’ (del re) non sono le ‘cose’.

[3] La scena del film è il castello di Condè:non una banale coincidenza,in effetti. Condè è uno dei capi di quella che è stata la resistenza aristocratica contro l’accentramento assolutistico di Mazarino, e non appare irrilevante che proprio lui sia qui proposto ormai come totalmente asservito alla logica del re:il suddito,per quanto nobile, dipende dal re, ne ha bisogno. Di fatto anche lui per eliminare i suoi debiti ha bisogno del fatto che il re lo faccia ‘lavorare’, gli dia un incarico a cui corrisponda una ‘paga’: a un livello diverso dal borghese o dall’uomo comune, ma la qualità della sua vita è strettamente dipendente dalle decisioni del potere centrale. La burocrazia, l’esercito centralizzata emanazione della volontà del governo, sono le istituzioni ‘razionali’ attraverso cui il potere crea ordine: e solo partecipando a questa macchina il singolo può aspirare a progressi e successi ‘personali’. Esattamente quella che è la logica delle grandi organizzazioni multinazionali (cfr. Marzano). La Mountaussier esprime per così dire il versante femminile di questa cosificazione della persona: lasciar perdere le proprie aspirazioni (nel film il possibile amore di Vatel) e obbedire alle regole delle ‘buone maniere’ (la cioccolata calda per la scopata,il ricatto per mantenere i privilegi..)

[4] uno che occupa un posizione avanzata rispetto agli altri membri della comunità; cfr. etimo di magis)

[5] Continue sono le situazioni in cui V. assaggia,gusta: è un sapiens che sapit, che sa trovare il ‘sapore’ delle cose in ebollizione,prese nel processo di trasformazione che è dato dal cucinare. Tanti sono gli addetti (i tecnici) che nella macchina organizzativa assolvono ad uno specifico (chi un piatto, chi un altro, chi il fuoco, chi le posate ..),ma solo V. ‘assaggia’ tutto, controlla le procedure in corso d’opera e verifica che le cose, le trasformazioni, vadano nel verso giusto (quel che ha in mente lui, solo lui,colui che sapit, che ha ‘sapienza’ appunto)

[6] La scena in cui viene introdotto per la prima volta V.,è ricca di elementi inutili dal punto di vista dell’andamento del racconto,ma necessari come indizi ermeneutici,come appunto sottolineare la personalità di V. l’orologio,lo specchio,la parrucca,il lavabo,le carte,la chiave..

[7] Ogni volta che viene a mancare qualcosa di quel che è stato previsto dal progetto,mentre gli addetti rimangono inebetiti e fermi,senza alternative (i tecnici che eseguono routine …) egli ‘improvvisa’,ovvero – avendo chiaro gli obbiettivi cui mira l’intera macchina organizzativa ‘sa’ presto trovare l’alternativa, adattando ad un uso utile le cose che gli sono intorno (ancora vive nella sua freschezza intellettuale’ la capacità borghese di allontanarsi dalla tradizione e di elaborare ‘forme’ , relazioni’, nuove, appunto ri – forme). Ad esempio,quando si rompono le lampade di vetro V. – colto conoscitore dei costumi dei ‘selvaggi’ delle Americhe – attiva il procedimento dell’analogia e usa le zucche per creare una ‘sorpresa’ ,una ‘invenzione’. Ecco dimostrato come procede la creatività borghese: prima attenta osservazione dei dati che vengono dall’ambiente esterno, poi generalizzazione e transcodificazione!

[8] Beffarda (e già malinconica) suona la risposta di Mountassier,che esperta com’è della logica profonda del potere ben sa che a decidere l’andamento delle cose sono i cinici calcoli del primo Ministro Colbert,non certo gli spettacoli e i pranzi di Vatel.

[9] La cultura individualistica del Rinascimento porta alla diffusione ,addirittura quale gioco di società,delle ‘imprese’,ovvero della pratica di costruirsi un proprio personale progetto individuale attraverso un testo composito, fatto da un motto e una immagine. La parola e la pratica di corte in effetti è la sublimazione delle antiche pratiche militari dei cavalieri dei romanzi cortesi che facevano l’impresa andando per duelli, nel mondo della ventura.

[10] È appunto quel che nell’ipermodernità pare essere la condizione inevitabile del lavoro,accanto alla dimensione della precarietà: sempre a rischio di esubero, sempre a rischio di delocalizzazione.

[11] La ‘civiltà della conversazione’ porta quindi a questo soprattutto: la violenza non appare più diretta nella sua brutalità, ma viene messa in scena in forme sublimate,in cui il linguaggio è ‘doppio’ (i suoni dicono il falso,alludono:ed è qui che si coglie la differenza tra uomo di mondo e uomo non di mondo) e il suddito (addestrato alle buone maniere) non può certo venir meno alle regole della ‘buona educazione’. La forma diventa apparenza e no sostanza come voleva Baldesar Castiglione.

[12] Appena arrivato a Chantilly, Louzun inverte con la massima noncuranza la disposizione delle camere di Y con K, sottolineando come il ‘salire’ e ‘scendere’ nella scala di valori di questo ambiente è solo una questione di uso (che decide l’unico Soggetto in grado di decidere questi valori). La carne di una improvvisamente ‘vale’ più i quella dell’altra. Le persone delle nobildonne – appena abbozzate nella storia – non contano affatto. Sono ‘cose’

[13] È chiaro il riferimento alla contemporanea pratica del desiderio illimitato del consumatore postmoderno,teso alla conquista continua di petit object a, incapace di riconoscere la natura tragica della Grande A

[14] È L. che si espone a rendere esplicito il senso delle parole del re,n ogni estorsioner: l’accettazione dell’invito di Condè,la sostituzione dell’amante,la preparazione dell’amplesso notturno.

[15] Maestro da ‘magister’,a sua volta da ‘magis’

[16] La specializzazione è una pratica conseguente all’abitudine laica di superare le con – fusioni tipiche della cultura sacrale (in cui il disordine terreno è segno di una specifica volontà divina) e di creare ordine attraverso pratiche di distinzione,cioè di separazione di ambiti che si ‘vedono’ come caratterizzate dalla differenza,creando appunto ‘categorie’. L’uomo faber riesce a completare l’opera divina di creazione del mondo se sa ‘distinguere’, se sa passare dall’enciclopedia alle categorie pragmatiche.

[17] La struttura fortemente gerarchica del potere,nell’immaginario antropologico si esprime in genere con la verticalità,qui presentata attraverso il movimento macchina discendente presente prima nella presentazione della lettera,poi nella presentazione dell’esterno (che rinforza l’altra coppia oppositiva tipica della rappresentazione del sistema di valori,cielo/terra). Questo movimento all’interno del palazzo passa dal soffitto decorato –l’ideale di armonia classicistica – alle banali strumentazioni dell’azione umana,che è atto dello scrivere:come in alto l’ideale,in basso l’azione concreta dell’uomo,che è logos,parola,anzi parola scritta.

[18] I debitori vengono quietati proprio dalla retorica argomentativa di V.: retorica del ‘credito’,retorica che allo spettatore dovrebbe far capire su quali labili basi si regga tutto il sistema del ‘denaro’. Pezzi di carta o segni digitali che ‘promettono’ di poter essere scambiati nel futuro in qualcosa di ‘concreto’. Ma per averlo occorre ‘credere’: da cui appunto credito. È la nuova religione pragmatica della società nuova. Bisogna sempre ‘credere’:non più nel sacro, ma nell’onore’ del ‘debitore’!

[19] Intellettuale completo,che tra l’altro vuole dispensare le sue conoscenze ai giovani (insegna la varietà delle pere del territorio ed altro al bambino sottratto al ‘piacere’ di Monsieur – vita edonistica della performance – per istradarlo verso l’etica della conoscenza,dello studio,della carriera sociale per merito.

[20] “che carne è?” “di unicorno!” è la risposta beffarda di uno principali collaboratori di V. alla domanda di un ingenuo ‘operaio’ di cucina: quel che emerge dai piatti dalla cucina non è ‘natura’ ma ‘sogno’ realizzato. L’unicorno ovviamente non esiste ma certamente le carni cotte e intrise di spezie e intingoli non sono più né pollo,né agnello,né bue: sono appunto ‘artificio’, né più né meno dell’animale mitico che ‘vive’nei nostri immaginari.

[21] La routine,ricordiamolo,è della mente parallela,il ‘volare’, il passare i confini della mente sequemziale

[22] Il movimento di V: è in effetti una rappresentazione figurata delle teorie cognitive della conoscenza e dell’agire : raccolta dati dall’esterno (sistema percettivo), loro elaborazione nel CPU (memoria semantica e procedurale), risposta (sistema effettivo,azione sull’esterno).

[23] V. insegna – ai suoi collaboratori - ‘discipline’ diverse,come la botanica,la ragioneria,la chimica,la scultura,il problem solving, la psicologia sociale, l’etica, discipline che tutte insieme modificano la percezione delle cose in chi apprende e quindi i loro modi di agire,gli stili d’azione. La cucina è solo una delle dimensioni operative dell’intellettuale ‘universale’ di eredità rinascimentale,uno dei campi di azione,nella direzione della trasformazione dell’immanente per realizzare un futuro migliore.

[24] Il dottore che vuole curare la gotta di Condè conosce solo la tradizione e non ascolta le riflessioni di buon senso di V:solo cuori di uccelli nobili servono per curare un nobile. Il principio dell’ipse dixit.

[25] Il grande dilemma del pensiero occidentale (l'uno di Parmenide o il molteplice di Eraclito?) caratterizza anche la cucina comune: ci sono, infatti, piatti pluralisti, come la macedonia, la paella, il cous-cous ,l’ insalata mista, e piatti monisti (come il passato di verdura, la cassoeula)in cui gli elementi si fondono gli uni con gli altri, mescolando sapori ed odori. Nella storia della filosofia vince il monismo che elimina le diversità: ad esempio per Hegel la dialettica opera come "l'organismo (che) assorbe immediatamente, in quanto potenza universale, il cibo ingoiato, ne "nega" la sua natura "relativamente" inorganica e lo pone come identico a sé, cioè lo as-simila.”Per Sartre, questa "filosofia digestiva" nasconde la complessità e corposità delle cose che accadono, a differenza della fenomenologia di Husserl, che fa i conti con "le cose stesse", fuori dalla coscienza. In tempi di fast-food, nei tempi in cui ci si convince sempre più che il Soggetto non è Ciò che pensa ma Ciò che Mangia, sarebbe utile richiamare la metafora sartiana della Nausea per rintuzzare questa deriva estetica: senza condannarsi al rigorismo, sarebbe necessario accompagnare il mondo ‘piacevole’ dell'esistenza fatta di performance e odori,profumi e consumi, con la coriacea durezza della consapevolezza tragica e perciò ironica e giocosa di quel che facciamo. La culinaria, come la ginnastica, la cosmetica e la retorica, esalta i nostri sensi, ma porta conoscenza solo se collabora con la mente.


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