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IDA,di Pavel Pavlikovski


IDA

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Con “To be or not to be” di Lubitsch si è in qualche modo introdotto il concetto che il Soggetto umano (l’Uomo) è tale in quanto “personaggio drammaturgico” non in quanto “persona”: non c’è un ‘autentico’ nascosto nel profondo a dettare i nostri gesti, ma l’imitazione di quanto fanno gli altri (teoria della mimesis di R.Girard), ovvero la ripetizione di ‘copioni’ che vediamo negli altri (teoria dei neuroni specchio di Rizzolatti), desiderio che consiste nel desiderio di essere riconosciuti nella nostra ‘differenza’. Insomma il Soggetto è un “attore sociale” che nella “scena” della società mette in atto performance sulla base di veri e propri copioni di tipo teatrale che preesistono al singolo e che col tempo egli introietta fino a farne un uso ‘spontaneo’ (teoria della ‘vita quotidiana come rappresentazione’ di E. Goffman)

La dimensione ontologica su cui poggiare queste teorie è offerta dalla teoria neuro scientifica del Soggetto autobiografico (A.Damasio, Il Sé viene alla mente).

Se le cose stanno così il problema da chiarire è allora “come” avviene che il singolo alla fine adotti questa o quella sceneggiatura.

Per rispondere a tale quesito possiamo far ricorso al film di Pavel Pavlikovski del 2014 “Ida”

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Il film racconta la vicenda di una ragazza che,prima di prendere i voti da suora,fa una duplice esperienza del mondo esterno al convento in cui è cresciuta orfana: dapprima perché costretta (la madre superiore la manda da una zia fino ad allora assente)poi per scelta (dopo il suicidio della zia). In conclusione torna al convento per prendere i voti.

Questa storia è esemplare,per così dire, per affrontare la questione della “scelta” del copione da parte di ognuno degli uomini : in linea di massima essa

  • o avviene per default (nel senso che lo subiamo,come inevitabile imprinting della cornice sociale di appartenenza – come è la situazione iniziale del film,in cui Ida vivendo in un convento non può che pensare automaticamente di ‘ripetere’ lo schema di vita che conosce, l’unico schema))

  • o avviene per scelta consapevole (nel senso che si percepisce almeno una biforcazione davanti a cui si può / si deve operare una scelta – come è il caso di Ida dopo i suoi “viaggi” nel mondo esterno al convento,nel corso dei quali scopre altri copioni possibili – come la contadina,la laica cinica, la donna di casa,l’amante..,tutti alternativi quello della suora cattolica)

Se è vero quel che sostiene il neuroscienziato Damasio,cioè che il Soggetto viene alla luce in termini di autodeterminazione (di scelta consapevole e responsabile) solo quando il singolo passa dalla condizione ‘meccanica’ del Sé Nucleare (di quello che si costituisce solo per negatività, per distruzione degli ostacoli al proprio stare bene omeostatico)alla condizione meta cognitiva e meta psicologica del Sé che è capace di ‘scrivere’ la sua biografia, di assumere cioè il compito di “sostenere” un ruolo da “attore sociale”, proprio come vediamo fare dai personaggi delle storie ,nella piena consapevolezza di ‘costruire’ qualcosa che altrimenti non esiste.

Ma come avviene appunto questa scelta? Secondo la cultura modernista e novecentista, non ci sono più dubbi sul fatto che,come già detto,è la cornice sociale a condizionare le scelte del singolo: i copioni assunti da ognuno di noi non possono che essere primariamente un rispecchiamento delle specifiche ‘drammaturgie’ elaborate dalla varie antropologie. Ma indubbiamente, al di là della differenze che derivano dalla ‘storia’, è possibile riconoscere nella scelta dei copioni ‘autobiografici’ una vera e propria regolarità, regolarità che si può modellizzare secondo la ben nota triade hegeliana Tesi, Antitesi e Sintesi,riletta alla luce delle proposte di S.Zizek, che in particolare finisce per rinominare il termine hegeliano di “sintesi” con il termine di “parallasse”[1].

In altre parole il Soggetto , che è un ”attore sociale”,

  • nella sua prima emergenza – all’interno delle comunità premoderne - si limita ad accettare ( a “ripetere”) il copione che si ritrova addosso dalla ‘storia’ (si limita ad essere quello che eredita con la ‘nascita’) - Tesi

  • nelle società moderne cerca di ‘fare la storia’ :ricorre alla ragione per dare un nuovo corso alle cose del mondo (razionalizzazione),vuole trasformarlo (riforme, utopie,rivoluzioni) assegnandosi ‘copioni’ nuovi - Antitesi

  • nelle società postmoderne contemporanee assume consapevolezza meta teatrale: valutata l’insufficienza ontologica delle due polarità sopraindicate (la non corrispondenza tra le ‘parole’ e le ‘cose’[2])decide di tornare a una delle due posizioni (“copioni”)prima percepiti come “reali” nella modalità dell’ironia,della distanza,del “ars”, del “gioco”, come “vuoto” da riempire[3].il passato puro si soggetti vizza in un cambiamento retroattivo.[4]

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Pavlikovski fa vedere nel suo film com’è che sorge un Soggetto autobiografico, cioè consapevole dei copioni che decide di scegliere tra quelli disponibili nel suo contesto di vita: una ragazza arriva alla fine dell’adolescenza tutta dentro il copione unico che ha trovato nella società (il convento); le si dà il compito di fare una scelta tra altri copioni che esistono all’esterno (la variegata società della laicità moderna); infine consapevolmente decide dopo aver sperimentato le differenti soluzioni, “scrivendo” il suo copione personale.

Per fare questa operazione il regista sceglie un contesto non contemporaneo, quello degli anni sessanta,gli anni in cui davvero, storicamente, si afferma in tutta autonomia una cultura ‘giovanile’ come rifiuto della tradizione, ovvero della necessità / possibilità di scegliere identità (copioni) diversi da quelli ereditati dalla società da cui si nasce. Da una società in cui,più o meno il giovani ripeteva i modelli dell’adulto (che magari per conto loro cercavano comunque di cambiare le cose) ad una in cui i giovani si fanno ‘ceto’ cosciente,dotato cioè oltre che di caratteristiche fisiche (età, corpo,energia) anche di consapevolezza di sé e di conseguente volontà di autonomia.

La scena è la Polonia degli inizi anni ’60:paese di forte tradizione cattolica,ma comunista ,per il fatto che gli adulti hanno già sperimentato il cambiamento, il progetto di cambiamento in seguito agli eventi della Seconda Guerra Mondiale.

La protagonista nella sua vicenda specifica rappresenta l’universale del particolare: è giovane,ebrea,orfana.

“Vergine” ed “esemplare” della individualità,della “persona” come frutto,all’inizio, sempre del contesto in cui vive:ebrea di nascita (ma lo scoprirà tardi) è cattolica perché vive in un contesto cattolico. Non ha genitori che le trasmettano eredità identitarie (quelle dell’ebraismo appunto) ma un

Quando entra in scena è totalmente immersa nei tempi e nei riti canonici del locus amoenus (di cui consiste il convento),totalmente estranea ai “rumori” del mondo .E’ questa la situazione propria di chi si affaccia alla vita: nasce,vive,acquista forma entro un contesto da cui assorbe più o meno passivamente (incoscientemente) idee,schemi,valori,procedure,certezze.

Al momento della fine dell’adolescenza si pone il problema della scelta di cosa (chi) voglia essere:e fa i conti con il passato. Nel senso che subisce un trauma quando scopre che tutto quello che reputa fin’allora “norma” (la Natura) è in effetti una costruzione (la Storia), con tutte le relatività del caso. Insomma prima semplicemente “sa” di essere qualcosa per default) ma improvvisamente scopre di essere (di poter essere) Altro da quel che è (è stata). Non più cattolica ma ebrea, non più religiosa ma laica. Allora il problema è un dilemma: nel futuro a venire, continuo ad essere quel che sono stato oppure voglio cambiare,scoprendo un altro modo di essere ‘autentica’?

In effetti la vicenda di Ida consiste in una sorta di viaggio dell’Eroe:esce dal cerchio in cui inizialmente è confinata (per l’insistenza di un Mentore – la badessa), affronta il rischio della ‘foresta’ della città mondana per duellare con i ‘mostri’ della diversità (tutte le persone le si mostrano in un modo o nell’altro di gran lunga distanti dagli schemi di comportamenti e valori cui è abituata nel convento: la zia cinica,il saxofonista innamorato,il contadino gretto) e poi rientrare nel cerchio arricchita da questa iniziatica e traumatica iniziazione ai ‘misteri’ della Realtà.[5]

A questo punto è ormai avviata alla possibilità di fare la scelta ‘giusta’: solo dopo aver sbagliato ci si rende conto di quanto comporta la prima scelta[6]. La ‘autenticità’ della scelta si conquista insomma con una scelta per viam negationis,come riappropriazione del copione (di qualunque copione) in termini di Ars,di approssimazione per difetto. Si esclude la perfezione (quello che oggi la cultura contemporanea chiama ‘felicità’),vista all’inizio come non solo possibile ma necessario diritto all’”autenticità” che ci dovrebbe identificare, e si accetta di dover ‘imitare’, recitare una parte:a questo punto l’autentico ricompare ,ma solo come fedeltà all’artificioso progetto di ordine da costruire continuamente in ‘situazione’. E questo è propriamente l’Umano:la Libertà dell’artificio.

Naturalmente questo Soggetto così emergente ha tutte le caratteristiche del Soggetto Posttraumatico,del Muselman dei lager nazisti: è vivo ma eliminando l’enfasi dell’identificazione totale; è vivo, ma vive la sua vita con il ‘distacco’ di chi non vede ordine (o senso) in quel che vive. La perdita del centro (della centralità del Simbolico) lo priva di empatia e si trova in una situazione di patologia psichica: la cancellazione di senso,l’imposssibilità di ermeneutica,producono traumi proprio per il fatto che interrompono il tessuto simbolico dell’identità del Soggetto, cioè la possibilità di trovare elementi ‘identici’ nelle cose che accadono.

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La scena iniziale. In convento.

Uno sfondo cupo, ombra o buio. Come figura, due teste che la camera riprende lateralmente con prospettiva sghemba e tagliando la figura,con primissimi piani angolati:una testa è mobile,l’altra è statica;l’una è di persona che vive,l’altra è di una statua,la prima guarda l’altra,anzi la ritocca con un pennello (e indossa il velo a nascondere i capelli).

Questo dato avvia con evidenza il codice ermeneutico:sono dettagli non particolarmente decisivi sul piano dell’azione, di quel che succede davvero nella storia,ma centrali per definire immediatamente il modello entro cui si muove il regista. L’identità è una relazione, anzi una imitazione:nel caso Imitatio Christi.[7]

Ida ha quindi un modello di riferimento immediato:il personaggio da imitare è quello del ‘santo’,che cerca di dare ordine alle cose attraverso l’accettazione di un copione ‘sacro’,che è come dire ‘vero’, indiscutibile, immutabile. Per la tradizione di tutte le culture è sempre la religione a proporre la prima risposta ai problemi della mancanza di senso delle cose che ci appaiono nell’immanente:con il rinvio ad un trascendente mai falsificabile tutte le discrasie del reale si combinano, tutte le assurdità trovano senso.per l’individuo il copione che garantisce la quiete (la fine della ricerca cioè) è appunto quello della ‘rassegnazione’ al tragico come ineludibile presenza nell’immanente in cambio della ‘certezza’ dell’ordine assoluto nel trascendente. Il male non viene spiegato ma accettato come ‘natura’, come segno di una volontà divina a cui non ci si può opporre,altrimenti ci si macchia di arroganza: insomma agire nel mondo solo per lo stretto necessario, ovvero allontanarsene (il velo a nascondere i capelli)è il bene,cercare di agire per cambiarlo,la “colpa”.

Quanto al gesto del ‘riparare’,potrebbe voler alludere al bisogno di recuperare al presente l’immagine, il copione di Cristo. La società dintorno è in effetti comunista,atea quindi, e il modello del sacro viene messo ai margini, se non vietato:il copione del ‘comunista’ è semplicemente una ennesima versione dell’homo faber, dell’uomo che fa la storia,che si allontana totalmente dal trascendente.

Successivamente insieme ad altre ragazze,vestite come lei, con tonache grigie, porta la statua a spalla,come in un funerale, fuori dell’edificio,passando tra oche e galline,e infine la depositano nel cortile, colmo di neve, al centro di una sorta di cerchio .

Il passaggio dall’interno all’esterno è segnato dal passaggio da un ambiente in qualche modo protetto e carico di simboli (per quanto banali e magari non avvertiti nella loro carica simbolica,quale la presenza di animali da cortile,segni probabili della possibilità di una vita ‘elementare’,senza incrostazioni ideologiche) ad un ambiente dell’indistinzione e del caos quindi. Secondo Frye,la neve è infatti il segno della fine delle distinzioni che dominano in modo confuso e travolgente l’esperienza delle vite umane , e introduce nel mondo del disincanto,dove si accetta il disordine come normale ‘regola’ dove tutto si rivela per quello che è nel fondo, cioè un nulla che il colore bianco (risultante dalla fusione dei vari colori) rappresenta. La neve del giardino,di quello che era un giardino,sta a indicare probabilmente la totale mancanza di senso della realtà umana, vista dalla prospettiva del regista ovviamente: la circonferenza che emerge all’interno della neve sta proprio a dire la frontiera lotmaniana che,secondo la semiotica, sta a dare forma all’informe;e il fatto che è là,al centro di questo cerchio che le ragazze depositano(anzi innalzano) la statua di Cristo, vuol dire forse che la religione è il modo per dare senso a quello che non ce l’ha,oggi. Certamente all’epoca della storia, il discorso è più palese,quasi cronaca:Cristo torna ad essere un riferimento anche all’interno di una società atea quale quella del comunismo da guerra fredda. Oggi forse vale come cenno al fatto che molti cittadini globali aspirano ad un senso nel trascendente (qualunque sia,).

Le scene seguenti portano la ragazza,che indossa una tonaca, all’interno della comunità che prega (in compagnia di vecchie e giovani suore) e mangia (nel refettorio, in totale silenzio).

Le scene di collettività confermano lo stile monastico di separazione dal mondo e di astinenza come stile di vita: stare fuori dalle tentazioni è facile se si condivide il copione. Sono riti ovviamente che in quanto tali si basano proprio sulla artificiosità delle azioni e delle comunicazioni: i riti danno struttura,direzione e significato al tempo,altrimenti labile e frantumato. Nel caso del convento la preghiera e la refezione mettono insieme,secondo forme rigidamente geometriche, giovani e vecchie a fare le stesse cose, con gli stessi gesti, le stesse parole:sono riuniti in sottoinsiemi diversi ma fanno parte dello stesso insieme collettivo che pratica ritmi e atti di esistenza rituale,la cui chiave semantica di fondo è la comunità, sul piano dello spazio, e la ripetizione sul piano del tempo. Le giovani sono e saranno uguali alle vecchie:questo è il copione che dà certezze e approdo. Dai volti delle singole persone non traspare cenno di jouissance (di passione di qualunque tipo):concentrati seriamente sul ‘compito’ che devono assolvere, senza particolare gioia, come necessità ineluttabile. Questo è il mondo questo va fatto. Insomma è la tipica situazione della società premoderna:tutti insieme a condividere le pratiche simboliche (la preghiera significa riconoscere la sottomissione e la devozione a delle forze invisibili per ingraziarsele e avere protezione: atto di ‘omaggio’ in termini feudali; la refezione comune significa ribadire che anche il corpo per sopravvivere deve adeguarsi alle necessità degli altri. L’unico spazio concesso alle iniziative individuali è di tipo gerarchico:la badessa (come nella tradizione del ‘buon pastore’)osserva i dettagli,valuta i dati e prende decisioni. Ida deve andare a conoscere la zia lontana prima di prendere i voti.

Una società ‘per – fetta’ in cui la scoperta del sacro (trascendente invisibile) significa accettare la forma di un vita ‘gelida’,in cui il presente di astinenza ed esclusione dalla juissance è vissuto come mezzo per riscattare una colpa (che ovviamente non si conosce in concreto ma solo per vaga allusione:il vivere stesso?avere un corpo? E delle passioni?)

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L’incontro con la zia.

Arrivo in treno. Dal finestrino,un veloce scorrere di negozi e gente che si muove indaffarata:è il mondo,è la società,è il divenire pieno di “rumore”. L’espressione di Ida è sempre di distacco, distanza:dentro il treno, il vetro come separatezza.

Ingresso come un tunnel buio,salita per scale anonime,campanello. La quest,la prova la mette a contatto con interni di edifici diversi dal convento,dove regna l’anonimato, dove esistono individui,non comunità.

Sulla porta,piano americano:Ida di spalle,Wanda discinta in desabillè,con sigaretta accesa in mano. Sguardo freddo,lento su Ida, fino al formale invito ad entrare accompagnato dall’altrettanto formale proposta di cibo/bevanda. Si intravede,da porte aperte, in camera da letto un uomo che si riveste.in seguito con un bicchiere di

Si mostra immediatamente non ‘formale’, lontana da ogni rito comunitario:la tenuta di abbigliamento e la sigaretta mettono Ida davanti ad un modo di gestire (strutturare e significare ) il tempo del tutto opposto a quello del convento. Non la negazione della juoissance ma la sua ricerca;non la forma (abito, parola,rito)ma la performance,(il qui e ora dell’efficienza omeostatica:il nulla artificioso della ‘droga’ fumo e il ‘pieno’ fisiologico del sesso come retroazione). Non la mente che dà ordine ma il corpo che impone il piacere.

Un ‘cinismo’ di fatto, che concede appena – per default - qualche generico segno di buona creanza (vuoi qualcosa),ma si guarda bene dal ‘toccare’ la nipote,in segno di vicinanza emotiva (Levinas),dal tentare un riconoscimento di ‘persona’: tratta Ida come ‘nipote’, come richiede la categoria formale della famiglia, secondo il copione minimo di parentela, portando anche una foto a ricordare la madre;ma appunto con distanza totale sul piano della persona, della singola esistenza che si trova davanti. Anni di distanza confermati da brevi risposte,quando Ida chiede sul passato. Frasi che confermano che lei nel passato ha fatto delle scelte di copione che l’hanno portato a interpretare altri ruoli rispetto a quello della ‘zia’. Rimostranza di Ida (perché non mi hai cercato,tenuto con te?) che avverte la mancanza di riconoscimento come un trauma peggiore del fatto di scoprire di essere ebrea. Una adolescenza di asciutta insicurezza emerge brutale:la zia l’ha rifiutata (e lo sapeva),il convento le ha negato le origini.

Scambio di battute gelide. Una rivelazione per Ida: è ebrea. Una foto della piccola Ida in braccio alla madre Rosa. Sbrigativo invito al commiato. Saluti in strada,mentre lei entra in una macchina.

La zia è di fatto una figura esemplare degli effetti riduzionistici determinati sull’uomo da una antropologia che si è totalmente allontanata dal sacro, che si è abbandonata alle tracotanti illusioni di utopie e si scopre infine delusa nei suoi ideali e sconcertata nella gestione delle pratiche ipocrite della vita sociale che si ritrova a recitare.

Wanda assiste infatti freddamente ,stavolta vestita formalmente ,sì, da giudice,dentro un’aula di tribunale,allo sproloquio retorico di un pubblico ministero che chiede la condanna di uno che possiede una spada che proverebbe il suo anticomunismo. Lo sguardo triste e perplesso si scontra con le rappresentazioni enfatiche ed ipocrite del potere che dovrebbe assicurare la giustizia. E la scena successiva fa vedere Wanda che torna a cercare la nipote alla stazione dei pullman. L’arrivo di Ida la sottrae alla routine e le fa recuperare il copione abbandonato anni prima di zia che si prende cura della nipote. La prende con sé per andare alla ricerca del passato.

Wanda nel complesso è quindi una figura che significa la crisi del ‘copione’ moderno dell’uomo che vuole fare la storia e tardi si accorge che i fatti non corrispondono alle intenzioni, che gli ideali astratti mal si combinano con le concrete situazioni dell’esistenza. La modernità oggi in effetti si è ridotta a soddisfare le pratiche del ‘corpo’ (l’edonismo,l’adesione al ribasso alle necessità fisiologiche del sopravvivere,quali quelle di un clochard,di un drop out )e quelle ordinatrici di una mente pragmatica(l’economia,la politica,la legge:un giudice – quale Wanda – è il sostituto laico del sacerdote,dello sciamano: è il mediatore tra l’assoluto trascendente della Dike e l’apprrossimata sgangheratezza delle esistenze). Wanda è il ‘sintomo’ della modernità:la perdita di una vera fiducia nella trascendenza (che nell’idealismo delle ideologie comunque resisteva) comporta la frammentazione del Soggetto,che si trova a vagare tra le pulsioni del corpo (i piaceri superficiali del bere,del fumare, dello scopare,della musica,del ballo) e l’adesione ad impersonali protocolli di forme non garantite che dalla forza (potere politico) e dalla tradizione (ideologia).

Ma Wanda è una donna,non un maschio:come in tutta la cultura novecentistica,è proprio alla donna che è affidato anche il compito di prendere coscienza dei limiti della mente, di scrivere una autobiografica davvero personale e ricca di contraddizioni,in cui il presente è sempre carico del passato. La vicenda di wanda è chiara proprio la dinamica del cosiddetto viaggio dell’eroina:come si saprà in seguito, durante l’occupazione nazista della Polonia, lei giovane madre, ha abbandonato la famiglia (il copione di madre con tutte le sue conseguenze) per assumere su di sé il copione tipicamente maschile dell’Eroe che combatte, dell’Eroe che fa la storia: lotta per l’affermazione di un ideale astratto di Libertà politica (il comunismo,la rivoluzione) sia con le armi sia con le parole, in pace, quando assume il copione del giudice dispensatore di Giustizia,ma acquisendo il nomignolo di Wanda la sanguinaria (perché ferocemente convinta della verità del progetto si limita ad eliminare tutto quanto non collima con quanto prevede la sceneggiatura a cui sta prendendo parte). Quando arriva Ida però, finalmente si verifica l’Evento:abbandona la routine ,che si è rivelato il copione,routine recitato ormai in modo falso, non più con l’ “autenticità” di chi crede in quello che fa, e trona al copione antico e negato di ‘donna’. La scena del dibattimento in cui sente parole barocche e palesemente assurde su comunismo,anticomunismo, spade e Pilsudsky le rivela la natura definitivamente artificiosa del copione di Attore della Storia e quindi torna improvvisamente al ruolo /copione di Madre. In seguito lo spettatore scoprirà in fatti che c’era appunto un figlio nella famiglia mai più ritrovata,un figlio mai cercato ed adesso silenziosamente tornato davanti a lei nella figura di Ida che infatti la rimprovera subito nel primo incontro (perché non mi hai preso dall’orfanotrofio?). Recupera la nipote che sta per partire e condivide adesso con lei davvero ricordi, affetti, emozioni, che consentono anche a Ida di costruire la memoria di una famiglia finora inesistente:un ‘copione’ nuovo,personale,rispetto a quello uguale e condiviso del convento,in cui le era stata negata ogni differenza, anche l’origine ebraica.

Finalmente un sorriso:della zia, di Ida. Delle parole di ‘cura’ :”dovresti provare,altrimenti che sacrificio è?”. in questa affermazione c’è già la conclusione della storia:il sacrificio, dice W.,c’è solo quando si dona qualcosa che si ha. E se si vive fuori dal mondo nulla si può ‘sacrificare’.

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La ricerca

Per la zia e per Ida il viaggio è una vera e propria catabasi, una discesa agli inferi, alla riscoperta di morti e allo scontro con demoni del male,ovvero se vogliamo rimanere nella metafora cavalleresca, una prova di iniziazione attraverso duelli con i mostri della foresta.

I morti possono parlare di fatto solo a Wanda,che di fatto come sibilla indaga fino a scoprire la verità,ovvero la tomba desolata dei cari. Il passato che viene fuori dalla quest è fatto di copioni sconcertanti, che spiegano la piega amara dell’espressione della giudice, la sua voglia di dare spazio al corpo: la campagna cattolica più isolata rivela la sostanza inumana dell’uomo di campagna, dell’uomo immanente, gretto e fermo alle spinte esiziali della pura sopravvivenza. Il contadino che adesso abita la casa di Wanda e Ida ha ammazzato gli altri ebrei proprietari (mentre il padre li proteggeva). La campagna ha perso (ammesso che l’abbia mai avuto) il suo sistema di valori di umanità che riconosce nel Diverso un suo Simile: il giovane contadino della modernità, in una società tutta votata all’immanente, all’utilitarismo e all’efficienza,lascia perdere il copione che si affida al trascendente (come nella comunità del convento) e adotta un criterio di giudizio essenzialmente utilitaristico (faccio quel che serve a risolvere il mio problema..). ma è tutto il villaggio a proporre il dominio della chiusura, del rifiuto della novità. La giovane contadina li caccia;i clienti del caffè tacciono alle domande; gli anziani fanno muro (c’era un sacco di ebrei qui;mi dispiace,si dice così);il parroco sotto la patina dell’ospitalità concessa ad Ida (quando Wanda passa la notte in guardina perché ubriaca provoca un incidente con l’auto) tace sui fatti tragici su cui vanno facendo indagini. Wanda si muove in questo contesto con rude e cinica sicurezza: lei –che ha perso ogni ideale – sa quanto siano brutali gli istinti di sopravvivenza..

Ida in questa ricerca si limita a seguire la zia (il mentore) per riuscire infine a ‘toccare’ la sua famiglia,a prendere contatto materiale con quelli che erano stati suoi genitori (il suo passato);ma si trova anche a osservare ,seppur dai bordi e senza intenzionalità particolare, altre forme di vita, altri copioni (il giovane studente,suonatore di sax;la musica ;il ballo;tutto il disordine cinico della vita del villaggio).

Quello che era la neve nella prima scena è qui la massa di situazioni strane e contrastanti, che ida fa fatica a mettere insieme in modo ordinato. Il piacere di scambiare parole con il ragazzo che la corteggia,il rifiuto a tuffarsi nel disordine della musica e del ballo;la sorpresa della confessione dell’assassino,la cui moglie addirittura le chiede di ‘benedire’ il figlio che ha in braccio)

la catastrofe

a questo puntoi tutto semmbra risolto,ma

[1] “Parallasse”,secondo la definizione comune, è l’apparente spostamento di un oggetto (il cambio di posizione rispetto ad uno sfondo) causato sa un cambiamento della posizione dell’osservatore che dà una nuova visuale

[2] È la metafora che dà il titolo ad uno dei libri più importanti di Foucault,che così identifica la crisi ‘barocca’ della conoscenza che per il filosofo francese è all’origine del sapere contemporaneo.

[3] Lacan individua questa immagine per indicare l’assenza di una specificità ontologica come segno dell’individuo: il Soggetto è una costruzione che emerge dall’incrocio della triade di Immaginario (l’esperienza vissuta della realtà,ma anche dei nostri sogni e incubi,che noi viviamo in modo diretto:è il dominio delle apparenze, delle cose come ci appaiono,filtrate dai codici appresi),Simbolico (il filtro , l’ordine invisibile che struttura appunto la nostra esperienza della realtà,la complessa rete di regole e significati che ci fa vedere ciò che vediamo nel modo in cui lo vediamo) e Reale (non solo la realtà materiale esterna ma l’incontro traumatico con essa, un incontro di etsrema violenza che destabilizza il nostro intero universo di significato)

[4] Qualcosa è proprio lì,nella fonte, nella cornice in cui ci si trova;ma noi possiamo percepirlo solo a posteriori,dalla prospettiva in cui ci si trova dopo: il senso dello stare in convento è già nella struttura (nella storia) del convento stesso,ma Ida lo percepisce davvero solo quando conquista e assume la prospettiva laica. Il “dentro” si rivela solo all’occhio di chi sta “fuori”

[5] È questo davvero il caso dell’invasione della Realtà lacaniana (“l’impossibile”)a deturpare l’Immaginario di Ida,mettendo in discussione l’ordine del Grande Altro (la cultura cattolica del contemptus mundi)

[6] Walter Benjamin e George Deleuze recuperano in effetti l’idea hegeliana del superamento per rivalutare in positivo quello che la tradizione binaria pre dialettica marchiava inevitabilmente come ‘errore’ tout court.

[7] Siamo in Polonia,paese cattolico da sempre, e inevitabilmente l’identità della persona non potrebbe essere che quella di un nuovo cristo.


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