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TO BE OR NOT TO BE?

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Una compagnia teatrale,a Varsavia nel 1939,prima dell’inizio della guerra, vorrebbe allestire una satira antinazista ma viene bloccata prima dalla censura polacca e poi dall'invasione nazista. Il tenente Sobinski, spasimante della prima attrice,Maria, parte per arruolarsi nella resistenza ma torna rocambolescamente a Varsavia con la notizia che una pericolosa spia, di nome Siletsky, va fermata prima che sia troppo tardi. Saranno le doti attoriali di Maria e del marito,il capocomico Joseph ,a compiere l'impresa, in una serie di travestimenti e scambi di persona.a dell’identità

Un film attualissimo nella sua distanza.

l regista coglie una situazione critica della storia del Novecento (la seconda guerra mondiale) non tanto nella sua superficie cronachistica di violenze e morti (cronaca,ovviamente terribile nella sua distruttività) ma nella sua profonda dimensione antropologica: usa il genere di racconto brillante (la comedy) per costringere lo spettatore a rendersi conto della dimensione ‘tragica’ che l’umanità nella sua evoluzione,quella della ricerca dell'identità. E per costringerlo quindi ad assumersi il compito di decidere ‘da che parte stare’ come risposta non ad un automatismo irriflesso (cioè per default: sono tedesco e sto coi tedeschi, sono americano e sto cogli americani),ma ad un moto di riflessività (cioè per argomentazione –per così dire – filosofica: l’umanità consiste nel Logos quindi sono nazista, l’umanità consiste nel Pathos quindi sono antinazista).La guerra non viene raccontata nelle sue scene violente di battaglia ma nelle retrovie quotidiane: anticipando la Arendt, L. pare aver chiaro che il male consiste anche e soprattutto nelle schermaglie minime delle vite d’ogni giorno, nelle pieghe –in genere trascurate – delle decisioni prese anche distrattamente nel banale vivere (se non sopravvivere).Il titolo dato in italiano (Vogliamo vivere) coglie la dimensione più astratta della storia raccontata dal regista europeo al pubblico americano agli inizi della guerra,mentre il titolo inglese ovviamente cita la scena shakespeariana per sottolineare che il problema dell’identità è tipicamente ‘moderno’ e che ,declinato in modi diversi nei secoli e nelle situazioni, rimane in fondo banale nella sua biforcazione.Solo che il dilemma proposto da S. (l’essere o non essere) è spostato da L. dalla contrapposizione propriamente tragica tra vivere o morire a quella del vivere con uno stile di vita piuttosto che con un altro.Dopo le secolari riflessioni della cultura moderna su temi come Utopia, Individuo, Io e Storia, la cultura novecentesca è approdata alla visione – denominata ironicamente ‘modernista’ – caratterizzata dal disincanto: disincanto verso le ambizioni di verità e di azione proprie dell’homo faber, e ironica riassunzione di questa o quella delle proposte precedenti, entro la logica del superamento hegeliano, quella che ultimamente Zizek ripropone con la metafora della parallasse.Insomma se per la modernità vivere,anche moralmente, era l’applicazione di ‘protocolli’, per il modernismo vivere è applicazione di ‘copioni’.Assumersi la responsabilità morale di agire, non è tanto adesione ad un ‘credo’ assoluto che garantisca chi agisce della assoluta ‘verità’ e ‘moralità del suo atto (il nazismo nel film, il totalitarismo in generale, le ideologie dogmatiche insomma),quanto assunzione ironica di un ‘copione’ tra i tanti disponibili sulla scena sociale (le scelte degli attori della compagnia teatrale, che si ritrovano a fare resistenza attiva solo per una serie di combinazioni).Il tema di fondo del film pare dunque essere proprio questa riflessione sulla natura ‘artificiale’ delle nostre identità. Scegliere di essere X o Y,questo è il problema:proprio come per Amleto,il dubbio è se appoggiarsi ad una soluzione preconfezionata (la lacaniana Legge del Padre, che impone tutta una serie di vincoli ed obblighi, togliendo spazio alla differenza che è in noi ma liberandoci dall’angoscia dell’incertezza e del dubbio continuo)o alla soluzione che emerge dalla situazione (la jouissance della affermazione di Sé,in tutte sue forme,con la continua necessità di rivalutare gli effetti e gli aspetti morali delle proprie scelte)Ritornando al momento storico in cui nasce il film,allora il “gioco” di Lubitsch è sottile come quello interno al film e, proprio come nella finzione, è gioco solo fino ad un certo punto: il regista di fatto attraverso questa commedia interviene nella scena socile degli Usa a dichiare il proprio schieramento, la propiria scelta di ‘essere’ dalla parte di qua piuttosto che limitarsi a guardare ,meditativo come il Principe di Danimarca; e con questo intervento, invita gli americani all'intervento, a lasciar perdere il consolidato copione isolazionista a favore dell’azione morale.,considerato una questione vitale. Come dimostra la sostituzione della pièce "Gestapo" con la domanda shakespeariana: "To be or not to be" la questione è di smettere di giocare per giocare e giocare per agire sul mondo.. Domanda esistenziale, non solo calata nel momento storico in cui l'America si dibatte tra tendenze isolazionistiche e non (Pearl Harbour arriva nel bel mezzo del tournage) ma perfettamente aderente l’univers uniformément mécanique et militarisé du monde «

esclave » contraste avec la diversité et la normalité, parfois un peu médiocre, du monde « libre4 ».

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CONCETTI DI SFONDO

Per avere un’idea non banale della profondità di quanto si nasconde nella apparente svagatezza con cui si affronta un tema ‘serio’ come il nazismo,è il caso innanzitutto di accennare rapidamente alla situazione culturale presente per tornare poi indietro a considerare quanto si è detto a proposito della questione dell’identità.Oggi la domanda “‘Chi sono? Che devo fare?” domina le menti,è sottesa ad ogni scena sociale e culturale. Nel mainstream essa viene coniugata, per evitare ambascie troppo filosofiche, sotto mentite spoglie: spesso parole/nodo come “merito”, “performance”,”felicità”,”benessere” si propongono nel mercato dell’industria culturale globale come risposte totalizzanti alla questione. Si propongono in effetti per lo più le soluzioni senza andare a guardare la complessità del problema: i miti del successo,dello zen, della new age,del fitness, dello sport,della meditazione,del volontariato sono le merci più evidenti nel mercato degli stili di vita. Ogni soluzione in fondo può avere senso per risolvere il quotidiano. Ma con quali effetti?per sé? E per gli altri?Per cercare di avere un’idea della rete complessa che è sottesa alle varie risposte,occorre ricorrere ad un concetto sufficientemente astratto, un ‘modello’ potente, che consenta di mettere in rete con chiarezza la varietà delle questioni sociali e politiche implicate: insomma – per dirla con le neuroscienze – un frame,che connetta le azioni concrete delle persone e le loro rappresentazioni nei media.La parola che pare rispondere bene a queste caratteristiche è un termine: PLAY che in italiano può suonare come gioco,ma anche come recita e anche come suono, addirittura.Si adatta a spiegare alcuni comportamenti sociali (a partire ovviamente da quello dei ragazzi) ma è apertamente finalizzata a rappresentare azioni consapevoli, consentendo di ricordare sempre la naturale artificiale dell’omoeostasi umana (come nota il neuro scienziato A.Damasio). In fondo la parole ‘gioco’, il concetto di ‘gioco’ è una specie di rumore di fondo che sta lì da sempre a ricordare all’uomo, agli uomini di tutte le culture, che la vita (la sua, quella da ‘uomo’) è tale solo se ‘finta’, se artificiosamente costruita in modo da sostituire all’omeostasi naturale (della pura sopravvivenza biologica e fisiologica) una sopravvivenza di tipo culturale,ad un ordine che emani dalla nostra intenzione piuttosto che dal ripetere le banali e spietate pulsioni della lacaniana “valva” che siamo. Non l’ordine meccanico che sovrasta la nostra differenza di ‘persone’,ma l’ordine ‘artistico’ del ‘rito’, della ‘cultura’ è effetto del ‘gioco’Naturalmente la consapevolezza di questa dimensione è antica,tanto antica quanto la lingua stessa dei nostri antenati. Il termine ‘persona’ con cui indichiamo la peculiarità del singolo uomo,quello che lo distingue nella sua ‘differenza’ e nella sua ‘appartenenza’ al genere umano in generale deriva dal latina ,che a sua volta lo incorpora nella sua semantica dall’etrusco, cioè la lingua del popolo che di fatto diede davvero vita alle forme della Roma delle origini monarchiche: e questo termine sta ad indicare propria mente la ‘maschera’ che si indossa (ancor prima che a teatro) durante l’esecuzione dei riti. L’antrpologia conferma che in genere tra i popoli preurbani si diventa a tutti gli effetti parte di una comunità solo nel momento in cui si assolvono certe pratiche e ,appunto, si indossa una maschera che ‘dà vita’ – letteralmente- al singolo. Indossare la maschera significa dar vita all’esistenza:ex istere, cioè ‘venir fuori’ dal flusso inesplicabile del reale e tracciare precisi confini intorno alla propria vagante esitazione di organismo che cerca di sopravvivere senza consapevolezza. Insomma si entra a far parte della società solo se si ha una ‘maschera’, ovvero se si accetta un ‘copione’ tra quelli che la società offre.Il cristianesimo accompagna a questo termine quello di ‘anima’ spostandolo dal piano materiale (di per sé significa ‘respiro’ a quello simbolico (lo ‘spirito’,l’immatriale) persistemarlo all’interno di un mondo platonico di Idee,ovvero trasportandolo dalla dimensione del Divenire a quella dell’Essere,dalla dimensione dell’artificio a quella della ‘natura’. La persona insomma assume i connotati di una realtà ontologica,l’invariante che tiene insieme le tante forme diverse della nostra vita: una realtà ontologica da puntare come obiettivo lontano a cui puntare per realizzare la propria dimensione.Il’demone’ socratico diventa col tempo ‘persona’,‘soggetto’, ‘Io’:ma pur nel variare della terminologia si presume sempre che il singolo abbia una sua ontologica struttura profonda che si ha l’obbligo di ‘scoprire’ e ‘realizzare’,pena l’errore, la colpa,il peccato.Le cose realI ovviamente sono sempre situazioni che ci portano ad agire in modo diverso da questo modello perfetto: per cui la costante è senso di inadeguatezza,senso di colpa,nell’impossibile sforzo di realizzare quello che è di fatto solo uno schema astratto che si vive come una ontologica realtà.

In particolare Dante esalta la chiara necessità dell’itinerarium mentis in deum per seguire la ‘retta via’ altrimenti smarrita. Per Cartesio il Soggetto è ontologicamente dato attraverso l’esperienza del dubbio metodico Per Kant l’autocoscienza (l’ “io devo”) è una funzione puramente logica, un punto di riferimento non sostanziale che deve essere aggiunto per rappresentare ‘ciò che ’ ha una sua disposizione,desidera, esprime giudizi.Per Rousseau c’è una autenticità dell’Io da difendere rispetto alle pressioni socialiNel ‘900 però si comincia recuperare la dimensione artificiosa della ‘persona. Ad esempio R. Benedict [1934] afferma il carattere culturale della sfera individuale( e il contemporaneo adeguarsi dell’individuo all'Ethos che la cultura, (come insieme di caratteri, forme di vita, sensibilità individuali, valori sociali) esprime Per Bateson l'interesse teorico va spostato dal fenomeno (il singolo) alle sue interazioni con l’“ambiente circostante”, intendendo lo “spazio teorico” dei movimenti di un sottosistema nel suo bacino più ampio. E' molto facile associare questo modello a quello di “Sistema aperto” di Bertalanffy [Bertalanffy 1967], e in generale agli studi biologici degli anni '30, che affrontano il problema del mantenimento dell'organismo intorno a certi parametri prefissati, introducendo il concetto di omeostasi, o “equilibrio dinamico”, come nel lavoro di Cannon(1939) per Dennet l’autocoscienza emerge come funzione logica (Dennet) proprio perché non c’è Teatro cartesiano, non c’è diretta conoscenza di un Sé ontologico:perché non si può mai conoscere ciò che si è nella propria dimensione noumenica (come Res Cogitans). La “riflessività implicita” è limitata all’attività cosciente e come tale è ciò di cui sono privi gli atti inconsci. Per Mead l’Io è il nodo in cui si incontrano tre istanze simboliche :il Sé ‘reale’ (cioè quello che il Soggetto conosce di sé con tutte le sue ambizioni, i suoi limiti, le sue contraddizioni, le sue oscurità);il Sé ‘degli altri’ (quello che il soggetto crede che gli altri pensano di lui,insomma la relazione che instaura con gli altri); eil Sé ideale (che corrisponde alla progettualità ,al futuro che si pensa di poter costruire in termini di ‘sogno’, ‘speranze’, ‘progettualità’) Per Lacan la “riflessività implicita” è proprio ciò che è ,nella sua forma più radicale, l’inconscio: un punto vuoto di auto relazioneIl Soggetto non è che il vuoto, lo scarto aperto dal fallimento della riflessione: le figure della conoscenza positiva di sé sono solo “riempitivi” secondari di questo scarto originarioNon vi significato sostanziale che garantisca l’unità dell’Io: il Soggetto è multiplo,disperso. La sua unità è garantita solo dall’atto simbolico autoreferenziale, dal fatto di dire “questo sono io”. Atto che in effetti significa ogni volta “questo non sono io” Per Dennet l’Io è un design: l’autocoscienza emerge come funzione logica proprio perché non c’è Teatro cartesiano, non c’è diretta conoscenza di un Sé ontologico:perché non si può mai conoscere ciò che si è nella propria dimensione noumenica (come Res Cogitans). La “riflessività implicita” è limitata all’attività cosciente e come tale è ciò di cui sono privi gli atti inconsci. Secondo Goffmann la persona è una situazione drammaturgica, un mettere in scena copioni (consapevoli o impliciti): la vita sociale può essere intesa nei termini della rappresentazione teatrale e muove dal presupposto che quando un individuo è in presenza di altri abbia molte ragioni per cercare di controllare le impressioni che essi ricevono dalla situazione. Il nostro agire insieme con gli altri non è solo strumentale, diretto al raggiungimento di determinati fini, ma è anche condizionato da come si vuole apparire agli altri.

Per Damasio, dentro quello che ri conosciamo come Io, agiscono tre tipi di Sé: il Proto – Sé, il Sé Nucleare, il Sé Autobiografico. Il Sé proto organismo che sopravvive ,il Sé nucleare organismo che ‘vuole’ sopravvivere ; il Sè autobiografico che sa di essere un organismo che vuole sopravvivere, e può davvero sopravvivere in modo ‘umano’ (simbolico) solo se e quando diventa consapevole della natura costruita della “persona”, quando insomma diventa ‘regista’ della sceneggiatura che continuamente risccrive a partire dakll’interazione tra impulsi dell’esterno e mappe depositate in memoria.

Per Zizek , il Soggetto ‘autoironico’ della contemporaneità nasce in forma di parallasse dalla capacità di ri – assumere ruoli e condotte prima assunte in termini di ontologie e poi verificate nella loro impossibilità, come consapevole forma simbolica che ‘sta per ‘ il Reale che non è, il reale che si muove ed è di fatto inconoscibileInsomma so che non è vero (nel senso ontologico del termine) quello che faccio (non è cioè garantito da nessuna legge assoluta): ma so che è ‘vero’ all’interno della ‘visione’ del reale che assumo- in termini di ‘modestia epistemologica’; è ‘vero’ all’interno del ‘copione’ che decido di ‘recitare’. La mia identità è – nei fatti – sempre e solo fasulla, un atto di produzione sociale ,più o meno corretta da una incipiente soggettività: ma ‘vera’ nella misura in cui la ‘recito con consapevolezza.

La persona è vera in fondo se falsa, se sa di star falsificando l’identità e si comporta coerentemente con distacco, con autoironia. come lontano dall’arenarsi nei miti romantici dell’autentico e assiduo e consapevole ricercatore dell’‘inautentico’ come segno della sua umanità (Baudelaire),come pulsatore disincantato dei labirinti del Sistema Simbolico (Lacan) In sintesi finale,I metodi di autorealizzazione sono il ‘fake’,il “play”, la “parallasse”. Ovvero con parole antiche la technè, l’ ars. Con parole banali il “gioco”, il “play” per l’appuntoIn questa direzione Eraclito e Ariosto, Shakespeare e Cervantes come numi tutelari. E il film di Lubitsch come ‘citazione’ e ‘riattivazione’ in una situazione precisa in cui si è chiamati al ‘play’ anche contro le nostre intenzioni.

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TEMI

MENZOGNA E FINZIONE

lega tra loro tutti i personaggi, il narratore e lo spettatore

Patto narrativo: Paratesto:titoli incorniciati,con lo sfondo di due profili stile cameo,senza volto preciso, a sottolineare l’onesto patto narrativo tra artista e spettatore: l’equivalente di “c’era una volta”, per segnalare l’artificiosità del mondo che sta per essere presentato. L’equivalente del sipario di un vero e proprio teatro che sta lì a definire il confine tra spazio del reale (disordinato,in cui gli elementi si raggruppano ‘a caso’ e spesso creano dissonanza) e spazio dell’arte (ordinato,in cui tutte le tessere sono intenzionalmente selezionate e combinate in modo da produrre un ‘senso’)

Sfida ermeneutica Hitler (finto) in mezzo alla folla (vera) di una città: sfida allo spettatore,chiamato a valutare il paradosso di un nemico della Polonia che gira per le strade di Varsavia da solo in tempo di pace.

Vero o falso?si innesca chiaramente il codice ermeneutico come vero centro tematico della storia che sta per essere raccontata. Lo spettatore inizialmente viene ingannato, ma una volta chiarito l’inganno, sarà quasi sempre consapevole dei trucchi e degli inganni, tranne in quei casi dove richiesto dalla legge della suspense. Lo spettatore colto sa vedere nelle tecniche del racconto un a citazione delle procedure tipiche della commedia, dall’antichità, fino alla pochade. In effetti è un ri – uso consapevole di quelle procedure, da sempre attivamente efficaci sul pubblico perché colgono sempre questo tema chiave dell’identità.in ogni caso da qui in poi è chiaro che bisogna stare all’erta e non scambiare quel che sembra per quel che è

.Grado zero (autenticità?)la reazione di meraviglia della gente che in modi diversi dirige lo sguardo verso un oggetto che all’inizio rimane nascosto: è la vera unica condizione di autenticità del Sé, che semplicemente si pone nei confronti del mondo esterno davvero in posizione ermeneutica poura, chiedendosi – all’inizio della sua esistenza – “cos’è?che vuol dire?”. Tanti singoli che fanno massa,naturalmente sottolineano proprio che non è un comportamento ‘differente’, cioè un comportamento che dà l’identità (con se stessi) ma solo con gli altri. Ecco questo noi siamo: macchine,organismi di pura ‘curiosità’ verso l’esterno, prima di assumere una posa, un copione, una maschera neghentropica.

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imesis: questo stato primitivo è già sorpassato quando si focalizza un singolo, anche se è un bambino. Dalla massa ancora inerte nello stupore (cioè ferma alle routine di senso cui è abituata dal Simbolico in cui è cresciuta e si è rassicurata nel tempo) emerge una figura incerta di bimba che in fine chiede all’attore truccato da Hitler un autografo: lei semplicemente sa che la norma sociale è la recita di un copione, e che il copione non può essere che MIMESIS, cioè adozione di un modello da ripetere

L’arte della commedia: l'essenza dell'attore è nello svelare in modo chiaro questa dimensione mimetica della vita;il teatro altro non è che la forma dissacrata delle forme rituali dell’arcaica società in cui il singolo esisteva perché assumeva una maschera, cioè un ruolo costruito . l’attore è strutturalmente incapace di non essere se stesso (ovvero di non recitare) tanto quanto di esserlo (chiamato com'è ad impersonare sempre qualcun altro): egli è la figura più onesta dell’identità. Identico è il problema,identico il metodo di soluzione (fingere) ma varie le soluzioni superficiali(i copioni). Quest’arte consiste nello scegliere tra i copioni (o inventarsi un copione in forma di mescolanza, di intertestualità) secondo due criteri fondamentali: la situazione (che comprende sempre scene messe in atto da altri) e misura (il limite oltre cui non andare per evidenziare l’affettazione contro la sprezzatura - cfr, B.Castiglione, Il cortegiano). Ecco da qui si comprende a volta a volta il successo o il fallimento della ‘recita’: Hitler a Varsavia in tempo di pace è un eccesso (una dismisura),mentre ….Il gioco rituale :incontri furtivi di Maria e Sobinski: la donna costruisce un copione che il maschio si limita a recitare. La dimensione tradizionale del corteggiamento, della base stessa dell’identità occidentale (amor cortese, amore come segno di perfezionamento,donna come angelo)viene messa alla berlina, tramite una rivisitazione ‘leggera’ della donna fatale, che ‘recita’ la parte della donna fatale in situazioni topiche che lo prevedono. Proprio dalla topica della pochade,che rispecchia gli stili di vita della Belle Epoque, emerge l’icona della donna di teatro che fa teatro continuo,arricchendo di fascino e glamour la scena reale oltre che il teatro. Insomma è l’immagine della donna che sa di avere un ruolo doppio, nel teatro e nella vita, e recita con naturalezza sempre,anche più ‘parti’ nello stesso tempo,rompendo lo schema della identità, che dovrebbe coincidere per definizione con l’essere sempre lo /la stesso/a. è doppia? Dall’insieme si capisce che è sempre ‘vera’, nel senso che davvero vuole avere il corteggiamento (l’altrove,il cambiamento) e il matrimonio (la routine,la sicurezza solida); il brivido che dà il rischio e la serenità che dà la ripetizione. Anche il tenente , un uomo in divisa, non fa – a sua volta – che recitare un copione sociale che gli viene dall’ambiente che frequenta. È la forma decantata dell’antico cavaliere (un soldato appunto) che fa la corte ad una bella dama: è vero c’è un castellano in giro, ma il gioco è proprio questo, riuscire a farsi apprezzare da chi è già ‘proprietà’ di un altro maschio. Addirittura è capace anche di cantare, giusto come un tempo avveniva nelle corti provenzali o d’Aquitania,dove il cavaliere spesso era anche trovatore. E il canto per definizione è ‘play’,ars,insomma gioco:come appunto in modo abbastanza trasparente il corteggiamento e l’accettazione della corte. Si fa la corte ma non per arrivare al matrimonio … la gratuità. Entro questa dimensione in fondo si possono classificare anche le smancerie di Maria con Siletsky

il doppio gioco di Siletsky (riconosciuto da Sobinski grazie al suo amore per il teatro e per Maria):dal rinascimento in poi il tema del doppio come inganno consapevole entra a far parte consistente della scena teatrale che diventa la società moderna. In particolare a partire dal manierismo si comincia usare la metafora del “gran teatro del mondo” per sottolineare come le relazioni sociali, in una situazione in cui l’identità non è un dato ma un ‘compito’,siano delle scene in cui mettere in atto veri e propri copioni drammaturgici,la cui posta in palio è il successo,in cui al play si accosta spesso il game. L’imbroglio comporta appunto che l’interazione sociale (in cui ci sono ,per dirla con Goffman, diverse equipe a cercare di controllare la situazione attraverso l’organizzazione di una rappresentazione per cui l’una cerca di essere ‘attore’ e fare dell’altra il ‘pubblico’) tenda a trasformarsi in vera e propria ‘azione’ teatrale,in cui c’è una serie di scelte predeterminate da continuare a metere incampo in modo da costringere l’altro a guardare, senza possibilità di modificare la situazione. L’azione insomma è una vera scena già fissata, non aperta come nel reale. Insomma si vuole avere un vantaggio,la vittoria, a danno dell’altro ovviamenteQuesta strategia è una technè che naturalmente diventa obbligo quando la situazione lo richiede: di qui i travestimenti di Joseph Turasoltanto un'occasione giusta per Bronski, l'aspirante Shylok, nell'architettura della Storia e del film. soprattutto l'essere-o-non-essere esaspera il concetto di finzione e identità: essere o non essere moglie adultera, marito tradito, spia, vero colonnello della Gestapo; credere e non credere; stare o non stare dalla parte giusta.

L’ARTE COME GIOCO/DOPPIO GIOCO

l’arte ,a partire dal teatro e per continuare oggi col cinema.+ play, gioco appunto: un simulare,un fingere, che però finisce per sostituire la realtà, nel senso che il suo ordine (dato da un ‘testo’ costruito con intenzione e con tecnica) vien infine accettato dal pubblico,(da quello che nello schema di goffa è il testimone, la componente essenziale perché un gioco funzioni davvero) come ‘posssibile’ nella sua ‘falsità’, nella sua oggettiva impossibilità, come un reale non ancora mai sperimentato ma che improvvisamente,una volta percepito, diventa praticabile (con tutti i limiti di un gioco, che sta ai bordi delle cose sicure). La presenza complessiva della compagnia teatrale di Varsavia sta a significare che infine reciatre porta dei risultati: diversi da quelli ideali o idealizzati, ma sempre dei risultati che in qualche modo modificano il reale. Gli attori che si trovano ad improvvisare copioni su copioni in risposte alle stranezze del divenire delle cose Provano a ‘fare’ quel che in genere pensavano si potesse fare solo sulla scena, sullo spazio limitato del teatro. Un po’ come se dei giocatori di calcio si mettessero a giocare una partita di calcio negli spazi non segnati dalle linee e dominati quindi dalle regole routinarie del gioco delòl calcio. Il potere e la diversità del teatro (dell’arte) consiste proprio nella possibilità di agire sulle cose che la recitazione (il gioco dei copioni presi e adattati e riusati e cambiati e mescolati..)consente. L’arte in generale è insomma come il rito antico, che nella sua assurda convinzione di stare proponendo segni che rimandavano all’ontologia e solida realtà delle cose, davvero modificavano le menti e guidavano le azioni delle persone, portandoli ‘fare la storia’. Il cinema ancor più oggi,(insieme alle forme di arte ‘diretta’ basate cioè sulla formazione di messaggi attraverso immagini e suoni che raggiungono immediatamente i centri di elaborazione della mente ad essi dedicati) riesce a ripetere il ‘miracolo’ del rito. La storia narrata (qualunque storia narrata e rappresentata per immagini) è il ‘doppio’ del reale: non è certo la realtà, ma riesce a sostituire i dati reali (i dati della percezione ‘naturale’) con altri dati ‘artificiali’ che si mettono come filtro tra le menti e le cose materiali, per creare un inconscio cognitivo ed emozionale che finisce inevitabilmente per far sì che quelle menti infine leggano il mondo (decodifichino i nuovi dati che arrivano dal mondo esterno in forma di stimoli sensoriali) proprio attraverso quegli schemi, quei pattern accumulati tramite il cinema (l’arte) dterminando infione azioni (magari inconsapevoli) in una direzione piuttosto che in un’altra.La finzione di ordine proposta da un testo artistico qualsiasi ‘costringe’ insomma la realtà disordinata ad avere una sua ‘forma’ ,una sua ‘immagine’, un suo ‘ senso’ nelle menti di quelli che –in qualche modo – hanno capacità di entrare dentro le storie, di assumere atteggiamenti empatici, di condividere le situazioni proposte.L’arte in definitiva funziona come se giocasse su due piani, come se facesse un doppio gioco: racconta,ad esempio ,una storia particolare, ma a un livello ‘segreto’ contemporaneamente manipola il tuo stesso modo di vedere (pensare9 le cose.“To be or not to be” allora diventa la questione umana per eccellenza: voglio essere quello che vive nel mondo materiale e basta (adattandomi alle sue meccaniche di pura sopravvivenza) o quello che si muove tra le cose materiali attraverso dei copioni ‘falsi’ ma che comunque possono funzionare?Vivo come un animale che ripete i suoi schemi di omeostasi naturale (entropia contro neghentropia di semplice benessere organico) o come un uomo che li integra con schemi di omeostasi artificiale (iin cui la neghentropia è costruita con l’ars)?Essere o non essere animali?Se all’esistere Amleto contrapponeva il non esistere (il suicidio),oggi sappiamo che ion effettio Shakespeare stava proponendo davvero la terza soluzione del Play, del gioco. Ridetto in termini hegeliani, attraverso la rilettura di lacan e Zizek: l’uomo può risolvere i suoi problemi di senso innanzitutto rintanandosi entro una qualunque delle ideologie totalizzanti (a partire dalle religioni)che propongono i propri copioni come ‘veri’ (cioè come davvero corrispondenti ad ontologiche strutture del reale); ovvero se nel allontana in direzione delle promesse laiche della scienza che promette di arrivare alla verità per altre strade; ma quando scopre che queste soluzioni sono inadeguate a speigare le cose, a ordinarle per davvero (quando si scopre semplicemente che la ‘perfezione’, la corrispondenza tra le parole e azioni umane e i modelli perfetti di ogni tipo è semplicemente un sogno, un assurdo), può accettare di tornare ad esse ,dopo averle criticate (viste nei loro limitate e quindi rifiutate) nella forma del ‘gioco’consapevole,. Ecco il senso del concetto hegeliano di superamento,ecco il senso della metafora zizekiana della parallasse, della libertà degli esistenzialisti. In una realtà che non ci consente di conoscere davvero le sue strutture definite per avere appoggi definitivi per le nostre scelte, rimane davvero lo spazio di ‘inventarsi’ delle ‘regole’ con cui ‘giocare’ ad un livello diverso da quello che la materiale pesantezza delle cose imporrebbe.Spazi ristretti, certo: ma spazi di novità. Spazi di ars, che non vuol dire genio, quindi, ma faticosa elaborazione, allontanamento dal concreto, riuso del già presente, collazione di frammenti e loro combinazione in forme sempre nuove. Ecco il gioco dell’arte è il gioco delle relazioni sociali, il gioco dei codici, di qualunque codice. If you prick us, do we not bleed?If you tickle us, do we not laugh? If you poison us, do we not die? Comico come resistenza La resistenza è nelle tipiche rappresentazioni una questione ideologica e di violenza distruttiva.Lubitsch la propone come uno sviluppo ‘emergente’ di questioni private e soprattutto come una capacità di ‘reciatre’ adattando i propri copioni alle situazioni. Lo scopo della vita è vivere, la vita è nel dare spazio alla differenza: è allora si assume anche la maschera dell’ubbidiente conformista per arrivare al proprio plLa comicità per definizione scardina le regole e rovescia l’ordine, mostra il risvolto ridicolo di una situazione, si prende gioco delle istituzioni. Il carnevalesco è la forma della distruzione: afferma negando la necessità di retroagire, di eliminare l’eccesso tramite l’eccesso, la caricatura,l’espressionismo.Di fatto è appunto la consapevole operazione di riequilibra tura,un meden agan applicato in forma parodica. Si usa la forma ‘seria’ e la si ‘nega’È un modo che si definisce per antitesi, come un rovesciamento di un altro modo, come un "anti-modo". Deriva dall'antichissima pratica di sovvertire l'ordine dominante da parte degli strati sociali subalterni e oppressi (strati popolari, masse contadine, strati infantili e adolescenziali).Il maggior teorico di questo modo letterario è Michail Bachtin, che con la sua nozione dicarnevalizzazione ha messo in luce le strutture di rovesciamento proprie ai testi letterari. Il carnevale infatti, come tutti sanno, ha spesso funzionato come valvola di sfogo per rendere accettabili situazioni di repressione ideologica. Esso ha anche dato luce a forme di espressione linguistica teatrale e letteraria che si sono diffuse anche negli strati sociali più acculturati, per parlare di nozioni normalmente considerate tabù o sotto forma di contestazione ideologica.Il linguaggio tipico di questo modo è quello più espressionistico, plebeo, burlesco, giocoso, ricco di motti di spirito e giochi di parole; i generi più tipici la farsa, la commedia, la festa, il teatro comico.Esempi: la tradizione giullaresca del Duecento, le novelle del Boccaccio, i romanzi di Rabelais. Non sminuisce la tragedia, Lubitsch, ma condanna la violenza denudando la follia del nazismo. Suscita una risata non sempre liberatoria, ma spesso tesa a suscitare un senso, se non di colpa, di imbarazzo. Come quando Joseph Tura, tanto geloso quanto vanitoso, fraintende le parole di chi lo circonda mentre si parla della vergogna dell'invasione nazista, e crede ci si riferisca allo spettatore che si è alzato durante il suo monologo. Jack Benny, che Lubitsch ebbe in mente fin da subito, è adorabile e straordinario: esilarante quando esce sul palco in calzamaglia o quando cerca, anche travestito, di verificare se il suo nome è noto all'interlocutore, per rimanere puntualmente deluso. Apice del disappunto è una delle battute più incriminate del film, che amici e colleghi chiesero di eliminare ritenendola troppo offensiva, pronunciata dal colonnello della Gestapo: "Oh, yes, [...] I saw him (Tura, ndA) on stage when I was in Warsaw. What he did to Shakespeare we are doing now to Poland". Ma Lubitsch, consumato, attento e geniale alchimista di parole e tempi comici, ebbe il coraggio e la lungimiranza di lasciarla. Popper Il sesso Il sesso, che spesso muove i personaggi del "regista delle porte", si mette di mezzo anche qui: Maria Tura è un personaggio desiderato da due (o più) pretendenti. La brama di stare con lei muove Sobinski e scatena la gelosia di Joseph, compromette il professor Siletsky e il colonnello Ehrhardt È l’oggetto del desiderio del ‘maschio’ in generale. Oltre all'insistenza di Tura e al monologo shakespeariano, ci sono quel "So they call me Concentration Camp Ehrhardt", e soprattutto il momento della ribalta di Greenberg/Felix Bressart (volto noto agli amanti del cinema di Lubitsch) con il monologo di Shylock da "Il mercante di Venezia", recitato in faccia ai nazisti. Momento che, secondo Guido Fink (monografia del Castoro), sarebbe finalmente modello positivo di recita, apice e catarsi del film se non dell'intero cinema di Lubitsch, perché tutte le vere vittime del nazismo starebbero gridando in faccia a Hitler le parole di Shakespeare. O più semplicemente, l'arte ha la meglio sulla follia, il bello sconfigge il disumano. Film coraggioso, sincero omaggio all'arte del narrare e del dissimulare, riflessione sul cinema e sulla recitazione, e soprattutto coraggiosa e sfacciata accusa ai totalitarismi e alla guerra, schiacciati sotto il peso della satira e della farsa - qui davvero sepolti da una risata. Inno all'amore, alla vita e all'arte come modello positivo di intrattenimento e finzione, arma di libertà capace di vincere sul sopruso e sulla violenza.


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