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Storie pazzesche, ovvero del 'godimento' (1)


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Sei storie,in Argentina, che parlano di catarsi, vendetta e distruzione,ovvero dell’innegabile piacere di perdere il controllo:

- su un aereo,il pilota ripete il modello Sansone, a danno di quanti lo hanno costretto ad essere quel che è diventato;

-in un ristorante,una vecchia “giustizia” a modo suo un ‘predatore’ sostituendosi alla figlia della vittima, incerta sul da farsi (rovesciamento del modello di Amleto)

-in una strada in montagna : un duello tra due automobilisti per questioni di ‘onore’ (riscrittura dei duelli cavallereschi medievali)

- in una ricca villa: il ricco padre salva il figlio pirata della strada con la complicità di “gente per bene”(il “gran teatro” dell cinismo nella società contemporanea)

- in una metropoli, un ingegnere si vendica in modo distruttivo delle multe e della burocracja di cui si sente vittima (rovesciamento del copione del travet,della persona-per- bene)

- in un albergo, una festa di matrimonio che si trasforma prima in lite furiosa e si conclude con rito di piacere (la satira della ‘festa’ carnevalesca, come rito postmoderno del ritorno alla ‘norma’)

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La Struttura

Sei storie [1]quindi, indipendenti l’una dall’ altra,apparentemente slegate,ma in effetti, come nei racconti alla Boccaccio, ben connesse a livello profondo (coerenza): nelle loro specificità sono,come dice il titolo, esempi diversi della ‘pazzia’ (come recita il titolo italiano del film) o,meglio, della natura selvaggia in cui abitano le nostre identità civilizzate. Pur nella evidente differenza, i concetti di pazzia e selvatico sottolineano entrambi , in termini simbolici, la distanza tra qualcosa di normale e qualcosa di anormale: se il selvaggio è l’uomo dei boschi, l’uomo che non vive in città (non conosce le regole della vita di una città),il pazzo invece pur vivendo in città devia dalle buone (sane) regole di vita sociale,ed è considerato un malato mentale.

In ogni caso le storie sono collegate tra loro dal fatto di mettere in scena una umanità diversa da quella che secondo i codici correnti chiameremmo appunto ‘umana’ o ‘sana’: una umanità che va,per così dire, ‘sopra le righe’, che supera i ‘limiti’ della decenza (del Decoro, dell’Educazione, ovvero del Bene tout-court),ma non tanto perché incapace di intendere bensì proprio perché, ad un certo punto, ‘decide’ di andare oltre, di fare oltraggio alle regole consuete per realizzare il proprio godimento (la jouissance di cui parla Lacan).

Lo “scandalo” che emerge dal film è che il regista si limita a raccontare le azioni estreme dei personaggi senza commenti correttivi,che ne sottolineino cioè la natura “oscena”, come pretende ogni società che si regge proprio per il fatto che ribadisce continuamente il discrimine tra Bene e Male,ovvero la necessità del “limite”. Szifron di fatto adotta la prospettiva propria della cultura popolare,quella che Bachtin chiama’carnevalesca’, dando spazio proprio a questi comportamenti eccentrici che le norme morali ed estetiche condannano come errori o peccati.

Di fatto, proprio come Boccaccio, fa dominare la scena dal l ‘corpo’, in tutte le sue declinazioni.[2]La struttura del film (sei ‘novelle’ invece di un unico plot)richiama in qualche modo il format medievale[3]: e rispecchia probabilmente la stessa percezione di una realtà di frammenti che ci assalgono nel fluire delle nostre vite ‘ordinate’. Ma l’idea che guida Szifron non sembra esattamente quella boccaccesca di rappresentare un ordine ‘nuovo’ che comunque garantisca allo spettatore una ‘agevolezza’ finale, una catarsi purificatrice in vista di un nuovo ‘equilibrio’: uguale è l’intento di rappresentare quel che avviene nelle sue derive (apparentemente) più assurde, ma probabilmente mira a creare choc in chi guarda, portarlo verso una esperienza ‘patologica’ di identificazione, com’è ovvio, con i personaggi, per portarlo al riconoscimento dell’abisso convulso e distruttivo che governa le nostre arroganti Soggettività occidentali.

L’idea fondamentale di Szifron è forse che l’ uomo postmoderno globale ,a quanto pare, si ritiene diverso da quello di ottocento anni fa (si è costruito delle ‘gabbie’ di protezione fatte di regole e forme), ma ha ancora dentro di sé dei meccanismi che lo portano (di fronte all’irrigidimento di quelle ‘gabbie’) a riscoprire la condizione ‘pura’ dei nostri antenati: sicché l’uomo contemporaneo è capace di ‘fare storia’ non solo (o non tanto) ricorrendo agli strumenti tipici dell’homo faber (la ragione,il self control) quanto affermando il proprio Sé attraverso la distruttività; ovvero ubbidendo (magari in modo non consapevole) alle regole che di fatto ci consentono di continuare a vivere, quelle dell’omeostasi, che mira alla conquista fondamentale dello ‘star bene’ qui e ora, attraverso procedure di retroazione, che a seconda della situazione riequilibrano gli eccessi che disturbano l’equilibrio (instabile) che ci consente di ‘stare bene’.

Allora, sono selvaggi, sono pazzi questi personaggi? La risposta non può che tener conto dello stile usato dal regista nel racconto,quello espressionistico della ‘caricatura[4]’: sono ‘sintomi’ di quanto abbiamo dentro tutti quanti e magari pervicacemente nascondiamo prima di tutto a noi stessi ( magari attraverso discorsi raffinati che citano religioni,filosofie e leggi scientifiche) cioè il bisogno di ‘star bene’, costi quel che costi.

La morale? Le leggi? Ecco che ne facciamo, se le cose girano in un certo senso e vogliamo ancora affidarci alla promessa (alla Grande Promessa della Modernità) di ‘fare la storia’? la risposta è non l’equilibrio (la misura) ma la ‘jouissance’!![5]2

Le sei storie,diversissime nelle trame e nelle situazioni, sono legate dalla sotterranea intenzione di portare lo spettatore a riflettere su un problema che apparentemente non è tale: cos’è l’equilibrio? Da sempre si loda l’equilibrio come criterio fondamentale per vivere bene, per risolvere problemi ecc. ecc. tanto che una persona ‘normale’ viene in genere identificata con l’aggettivo ‘equilibrata’.“Niente di troppo”,” in medio stat virtus”, “aurea mediocritas” ecc, sono alcune delle formule arrivate dall’antichità greco latina a ricordare che la vita consiste nell’ordine che deriva dall’incontro / scontro di forze (pressioni contrastanti). Qualunque incontro ,qualunque situazione sociale finisce in quiete o conflitto a seconda che si raggiunga o meno l’equilibrio. Ovvio per tutti questo fatto, non problematico dunque. Dentro questa cornice è chiaro che vengono a risolversi facilmente i problemi dell’agire umano: il Bene è nello stare dentro un a situazione di equilibrio,nel darsi sempre una calmata, nell’evitare gli eccessi,il Male è nell’Eccesso, nel fuoriuscire dai margini segnati dai vari sistemi di rappresentazione sociale e antropologica. Insomma il Deviante, il Matto, il Pazzo, lo Strano è quello che non è equilibrato. Squilibrato è un modo semplice per identificare tutto quello che è fuori della norma. La premessa di queste metafore è appunto che esista un sistema stabile, chiuso e autosufficiente, che i filosofi chiamano IO,che i medici chiamano persona SANA,che i moralisti chiamano NORMALITA’.

Ma le cose cominciano a cambiare quando ripensiamo alla metafora sottesa alla parola stessa : equilibrio viene da aequus e libra, ovvero dall’immagine della bilancia a due bracci, che nelle rappresentazioni grafiche non possono che essere sullo stesso livello a sottolineare la parità, l’imparzialità ecc. ;ma se uno prova a far funzionare una bilancia (bi + lanx, piatto) si accorge che la stabilità del sistema è minima e difficile da mantenere. Insomma l’equilibrio nell’Immaginario comune corrisponde ad una condizione fissa di un sistema qualunque, ideato quindi come chiuso e regolato da procedure note e controllabili:però nella realtà di sistemi del genere in natura semplicemente non ne esistono molti. Cristalli rocce,ma spesso anch’esse sono spesso friabili, in ogni caso sottoposte all’entropia, magari su tempi diversi da quelli tipici della nostra percezione quotidiana. In effetti alla domanda “’quali sono le caratteristiche fondamentali di un sistema in ‘equilibrio’?” bisognerebbe rispondere “l’apertura e la dinamicità”.In effetti oggi i filosofi non pensano più che esista un Io forte, i medici sanno che il concetto di sanità è sostituito dal concetto di benessere, i moralisti discutono sul concetto stesso di Bene e male. Insomma oggi all’idea meccanicistica di una realtà che corrisponde ad una macchina (o ad un organismo, se si aggiunge la componente del Tempo) si è sostituita l’immagine di una realtà che somiglia ad una rete,una realtà in cui le cose ‘emergono’ qua e là secondo le procedure dell’emergenza’ e non della logica formale, e all’idea di individuo ‘tutto d’un pezzo’ si sostituisce quella di Vuoto riempito da Copioni appunto secondo la logica dell’Emergenza, cioè in rapporto alla contiguità con questo o quello con cui si interagisce. A caratterizzare in maniera simile tutti questi livelli del reale è la caratteristica che viene ben espressa dalla metafora della ‘rete’, ma di una rete ‘aperta’ in cui il movimento e il tempo sono dettati dalle contingenze. E dall’autoregolazione.[6]E le forze fondamentali che attraversano questi intrichi di relazioni non sono altro che quelle del Proto Sé di cui parla Damasio,quelle che infine si elevano a Soggetto nelle forme del Sé Nucleare che appunto costruisce la sua cosciente sopravvivenza a forza di limite da stabilire a ristabilire. La Jouissance come scatenamento dello stato di benessere,come parametro da rispettare per decidere del proprio benessere.

[1] Naturalmente trattandosi di film diamo per scontato la centralità della categoria ‘storia’: se dentro la tradizione culturale platonico – cartesiana raccontare storie era giudicato come un giocoso espediente per dire bugie e ingannare la mente,attualmente con la scoperta della centralità del linguaggio e della natura incarnata della cognizione, si valuta come prioritario certamente il conoscere che avviene attraverso le storie (che danno forma al Tempo e concretezza ai concetti astratti) rispetto al conoscere che avviene attraverso la logica ( che dà forma allo Spazio e riduce il molteplice all’unità). Le storie insomma sono universali concreti, mentre la logica propone universali astratti: certamente dalle storie è possibile arrivare, per via abduttiva, all’universale astratto (con tutti i vantaggi del rischiare ipotesi e dubbi),mentre la via inversa si percorre solo per via deduttiva, con tutti i rischi della rigidità e del riduzionismo.[2] Naturalmente questa struttura viene riusata continuamente fino al Novecento,perdendo progressivamente l’abitudine a creare cornici razionalizzanti a favore della semplice sovrapposizione di singole situazioni, senza specifiche indicazioni di dominio,con la chiamata sempre più evidente del lettore alla costruzione del senso, alla costruzione della rete implicita non dichiarata che tiene insieme le varie storie. Si pensi, limitando il discorso all’Italia, ai casi di Verga prima e Tozzi e Pirandello dopo. È un dato di fatto che questa tendenza si radicalizza man mano che emerge la complessità delle cose e si evidenzia il non senso dell’esistenza. Il recupero attuale della forma lineare del romanzo è del resto da intendere come un indizio esplicito dell’abbandono del presupposto estetico dell’arte che deve imitare la realtà a favore dell’idea che l’arte è artificio (fciction)[3] Ovviamente i cinefili salteranno su a ricordare che ad esempio l’epoca d’oro della cosiddetta commedia all’italiana vede una sovrapproduzione di ‘film a episodi’ (come si diceva negli anni sessanta),in parte dovuta proprio alla trascrizione cinematografica di antiche raccolte letterarie di novelle,in parte per la consapevole necessità di dare spazio alla frammentazione esistenziale di cui si cominciavano ad avvertire gli esempi. i Mostri e i Nuovi mostri di Dino Risi sono ad esempio prodotto del dissacrante sguardo dell’intellettuale che nota i segni del disastro antropologico in corso nelle situazioni più banali, nelle routine più diffuse della contemporaneità. Allora la critica sbeffeggiava queste opere come segno della mancanza di idee:ed in effetti era così, nel senso che le singole vite degli anni sessanta cominciavano ad essere ‘a pezzi’, sufficienti a dar vita a spezzoni, non a ‘storie’ complete.[4] ‘Caricatura’ come dice la parola sottolinea il fatto di andare oltre il limite, quello che le convenzioni ritengono sia il limite. In generale è una pratica carnevalesca di resistenza a qualcuno / qualcosa a cui non ci si può opporre direttamente, con argomentazioni ‘altre’ che dimostrino altre vie alternative, e si limitano appunto a distruggere quello che dell’avversario si ritiene pericoloso. È certamente una forma di retorica emotiva non argomentativa, che fa cioè leva sulle emozioni per creare appunto uno stato di pathos negativo capace di sostituire parole ed argomentazioni. Nella cultura occidentale accanto a questa parola ,in genere collegata a pratiche banali di rissa sociale, è usata quella di ‘espressionismo’ che leva questa abitudine al livello di consapevolezza stilistica, di consapevole scelta di campo (ideologico, sociale, politico, culturale). E consiuste appunto nel fatto che l’artista ex promit, spreme fuori da qualcosa che si presenta simmetrica qualche elemento che ne riveli l’asimmetria di fondo, ovvero l’inappropriatezza,la falsità ecc.[5] Gli autore di questa direzione non possono che essere Nietzche,Bataille e Lacan, capaci di mettere a fuoco le misere menzogne dell’uomo cartesiano, tutta mente che controlla, riportando a galla l’oscena dimensione del corpo che vuole semplicemente sopravvivere,fuori di ogni progetto mentale. [6] Quello dell’autoregolazione degli organismi viventi è un concetto fondamentale della biologia moderna, formulato alla fine del 19° sec. dal fisiologo francese C. Bernard che lo sintetizzò nella classica espressione di «fixité du milieu intérieur», con la quale si affermava come si dovesse ritenere essenziale per la vita degli organismi superiori la costanza della composizione chimica e delle proprietà fisiche del sangue e degli altri liquidi biologici.

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