Da dove viene la slam? uno sguardo antropologico.
- bruno nasuti
- 26 nov 2015
- Tempo di lettura: 18 min

Una premessa: la forma consueta imporrebbe nel caso di un saggio solo qualche breve nota a piè di pagina, che non appesantisca troppo quanto detto nel testo principale. Invece noi riteniamo che la nota non sia una semplice integrazione del testo principale: essa è a tutti gli effetti una vera e propria porta che 'apre' quel testo alle altre infinite possibilità che il materiale usato ‘evoca’.
Ogni nota può e deve dichiarare il terreno ideologico che dà vita e senso a quanto affermato nel testo 'base'. Ogni affermazione suona apodittica, quindi ‘falsa’ e presuntuosa, esteticamente compiaciuta del suo essere pronunciata, se non è in qualche modo collegata al concetto da cui è emersa. La nota ha la funzione di invitare il lettore a rendersi conto del fatto che il procedere lineare del saggio è solo una semplificazione necessaria per esporre a chi legge dei concetti probabilmente in parte nuovi.
Naturalmente una lirica non solo rifugge dalle note ma rifugge anche dalla trasparenza, perché è costruita proprio sulla capacità di muoversi lungo le strutture dissipative delle cose. La prosa mira, invece, alla chiarezza. Ovviamente c’è prosa e prosa, forma e forma. Ormai dalla linguistica e dall’antropologia sappiamo che ogni testo è un atto ideologico: questa intenzione è onestamente dichiarata dai poeti con la loro opacità, ma viene mistificata profondamente dagli autori di prosa. E ci si riferisce anche a quelli della cosiddetta prosa narrativa. Insomma le note come apertura ad altre linee di scrittura, quindi di senso, ad altri itinerari, allo ‘sporco’ incrocio di parole, idee e cose che hanno il diritto/dovere di essere lunghe quanto serve.
“C’è il momento di recitare poesie e c’è il momento di fare a pugni”
Roberto Bolaño, Messicani perduti in Messico
Conflitto. È da qui che si deve cominciare se si vuole avere una idea di quanto accade intorno a noi, anche nella ‘provincia’ della poesia.[1]
1.
Il conflitto è effetto necessario della condizione di bisogno in cui si trovano tutti gli animali: per vivere essi cercano cibo e sicurezza e questo avviene solo in concorrenza con altri esseri viventi, anche della stessa specie.[2]
Da questo punto di vista, l'Uomo si trova nella stessa condizione degli altri animali. Ma quando si fa Soggetto, quando acquista la parola e comincia a nominare le cose (a “creare il mondo”), percepisce questa dimensione di lotta per la sopravvivenza come un problema, anzi la categorizza come situazione difficile da risolvere e la marca con la parola ‘problema’: è da allora, soltanto da allora, che comincia a cercare soluzioni che siano meno dispersive energeticamente, che si presentino meno pericolose rispetto alla pura e semplice sopraffazione dell’altro. Questo comporta l’allontanarsi progressivo dalla banale ripetizione degli impulsi naturali (violenza fisica, distruzione dell’Altro) e l’elaborazione di forme alternative: si tratta di dare vita a forme artificiali, non naturali.[3]
E allora il conflitto viene dapprima sublimato nella forma del gioco (agòn, lusus) che consiste nel ripetere gli schemi che provengono dall'evoluzione naturale (aggressione, distruzione), finalizzandoli però a scopi diversi da quelli della sopravvivenza fisica: il gioco, questo gioco, è innanzitutto pura mimesis (ovvero simulazione, come accade nel teatro e nello sport, che creano il mondo del ‘come se’), ma anche semplice parola che, come nell’argomentazione, si sostituisce alle armi materiali per offendere l’altro. Insomma il duello o lo scontro, da fisico diventa intellettuale: nel teatro, nello sport e nelle storie viene‘rappresentato’ invece che messo davvero in atto; nei processi in tribunale viene vissuto davvero ma senza spargimento di sangue.
Riassumendo: accanto al conflitto vero e proprio (che non scomparirà mai), l’uomo inventa altri tipi di conflitto, conflitti artificiali che vivono grazie a codici simbolici, ma non per questo sono meno reali: anche da essi derivano effetti concreti, di Potere sull’altro.
Bene, qualcuno dirà,: ma che c’entra tutto questo con la poesia? E con quella di oggi in particolare?
Procediamo con metodo: andiamo a vedere prima l’etimologia di alcune parole.[4]
2.
La parola italiana ‘poesia’ deriva direttamente da quella greca poiesis. L’ovvia etimologia, che fa derivare il sostantivo dal verbo poiéo ,è ‘costruzione’: in genere questa constatazione mette in grave crisi chi è abituato a utilizzare la parola italiana con l’ovvia corrispondenza poesia = scrittura.
“Ma come, che c’entra lo scrivere con l’operare?”
Certo, oggi le cose stanno davvero così: la pratica del poetare anche nell’immaginario di chi prende penna e scrive poesie non può non coincidere con l’emozione della pagina bianca, del dar vita a segni su carta, che in qualche modo assumeranno prima o poi forme di simmetria, di ordine; ma certamente non ci si immagina in quel momento nel ruolo di qualcuno che sta costruendo qualcosa.
In realtà nel greco antico esisteva un altro vocabolo che copriva approssimativamente lo stesso spazio concettuale di poièsis, cioè pràxis : esso deriva dal verbo pràsso e indica l’agire, l’attività del contatto diretto dell’uomo con le cose. La parola poiésis, invece, come detto prima, vuol significare ‘costruzione’, ovvero la produzione di un mondo artificiale di cose. Insomma i greci distinguevano tra un entrare in contatto con il mondo – per così dire – tramite elementi artificiali (quelli che oggi si tende a indicare con il termine latino media), e un entrare in contatto con il mondo senza le mediazioni dell’artificio. Semplificando: l’uomo sta nel mondo in due modi essenziali, o tramite il filtro dei Media o senza. Nel primo caso abbiamo a che fare con l’homo faber, nel secondo con l’homo activus: ovvero da una parte l’artigiano (o se si vuole con le parole di oggi il tecnico, lo specialista, che si cura delle ‘regolarità’ del mondo umano), dall’altra il ‘politico’, ma politico non nel senso di chi vive di politica (da specialista, come di fatto avviene oggi), ma nel senso di chi vive nella pòlis e si prende cura degli eventi umani in tutta la loro mutevolezza. Da una parte (poièo) chi vive in un mondo artificiale e prevedibile, in cui le cose non possono essere diversamente da quel che sono, dall’altra (pràsso) chi vive inter homines (come dice Cicerone) affrontando le perturbazioni continue dei flussi delle relazioni sociali[5]. Da una parte la technè (la ripetizione), dall’altra l’episteme (il cambiamento).[6]
La grande differenza che emerge da questa contrapposizione sta allora nel fatto che nel primo caso l’azione dell’uomo (poièsis) è essenzialmente un’azione singolare, nel secondo caso (pràxis) plurale: infatti nel primo caso l’uomo che agisce sulle cose del mondo, lo fa sulla base di una specifica conoscenza (una ars, di una tecnè,) che si apprende certamente a contatto con altri uomini (potremmo dire ‘a bottega’[7]), ma si applica successivamente solo in termini di ripetizione (‘a regola d’arte’, appunto), all’interno di una specifica tradizione di conoscenza, fino all’estremo del puro protocollo, che garantisce che tutto è e sarà sempre lo stesso. In questa maniera si aggira il conflitto, perché c’è la regola che fa da discrimine tra gli specialisti e i non specialisti. Ci sono le regole del gioco da rispettare, a cui appellarsi in caso di conflitto.
Al contrario nel secondo caso, in mancanza di regole e protocolli (mediazioni), l’agire corrisponde a un confronto infinito con individui e gruppi che hanno interessi e progetti differenti: lo scopo dell’agire in questione non è quindi l’isolata applicazione tecnica di protocolli, ma il tentativo di attenuare omeostaticamente le frizioni del conflitto fisico fino ad arrivare ad una mediazione tra le parti, che è sempre provvisoria e fluida. Essere pratici, appunto, vuol dire far i conti con la complessità del reale.
I poeti puri potrebbero obiettare a questo punto, con le parole di Nietzsche: “Come potrebbe qualcosa nascere dal suo contrario? Per esempio la verità dall’errore? O la volontà di verità dalla volontà d’illusione? […] Una tale origine è impossibile; chi sogna una cosa del genere è un folle, anzi qualcosa di peggio. Le cose di valore supremo devono avere un’origine diversa, un’origine loro propria – non possono essere derivate da questo mondo effimero, seduttore, ingannatore, irrilevante […] piuttosto la loro origine deve essere in seno all’Essere, nel non transeunte, nel nascosto Iddio, nella cosa in sé - ”.
Ma sempre utilizzando le parole di Nietzsche il poeta da slam potrebbe ribattere: “Questa maniera di giudicare costituisce il tipico pregiudizio da cui si rendono riconoscibili i metafisici di tutti i tempi; questa specie di apprezzamenti di valore sta sullo sfondo di tutti i loro procedimenti logici; prendendo questa loro ‘fede’ come punto di partenza, essi si sforzano di raggiungere il loro ‘sapere’, qualcosa che alla fine viene battezzato come ‘la verità’. La credenza fondamentale dei metafisici è la credenza nelle antitesi dei valori. Neppure ai più cauti di loro è mai venuto in mente di dubitare già su questa soglia, dove il dubitare era quanto mai necessario; perfino quando del de omnibus dubitandum avevano tessuto la loro lode. È infatti lecito dubitare in primo luogo se esistano in generale antitesi, e in secondo luogo se quei popolari apprezzamenti e antitesi di valori […] non siano forse che apprezzamenti pregiudiziali, prospettive provvisorie, ricavate per di più, forse da un angolo, forse dal basso in alto, prospettive – di batrace – per così dire, per prendere in prestito un’espressione che ricorre frequentemente nei pittori?
Nonostante il valore che può essere attribuito al vero, al verace, al disinteressato, c’è la possibilità che debba ascriversi all’apparenza, alla volontà di illusione, all’interesse personale (“marketing“ n.d.r.) e alla cupidità un valore superiore e più fondamentale per ogni vita. Sarebbe inoltre persino possibile che quanto costituisce il valore di quelle buone e venerate cose consista proprio nel fatto che esse sono capziosamente imparentate, annodate, agganciate a quelle ‘cattive’, apparentemente antitetiche e forse anzi sono a queste essenzialmente simili. Forse!” (Friedrich Nietzsche –“Al di là del bene e del male”, Cap. I, Aforisma II)
3.
Sulla base di questo sfondo, forse emerge la dimensione antropologica che è sottesa rispettivamente alla ‘poesia da camera’ e a quella da ‘slam/piazza’.[8]
La lirica, quale si è venuta affermando a partire dall’invenzione e dall'interiorizzazione della stampa, si è sempre più caratterizzata come una ricerca ininterrotta di tecnè, isolandosi progressivamente dalle situazioni multiple della vita sociale (strade, corti, salotti) fino ad identificarsi con un esercizio di pura artificialità, che fa i conti solo con la ‘provincia’ specifica delle forme speciali già trovate antecedentemente (tradizioni). Gli elementi di conflitto sono gli scritti di altri autori, di solito morti o se vivi, avvertiti come simili per interessi e stili di vita; è dalle loro opere che emergono modelli di rappresentazione delle cose che collidono con quanto sperimenta il Soggetto poetante, e in concorrenza con loro si fa ricerca di nuove forme adeguate a colmare la dissonanza cognitiva emergente[9]. Il tutto – appunto – nelle officine segrete della propria personale esistenza: l’interiorità diventa l’inevitabile topos, l’esercizio tecnico il mezzo di auto-realizzazione. Se si esce dalla propria stanza è solo per ritrovarsi, come negli antichi riti misterici, con altri pochi iniziati. Vere e proprie sette di adepti ai culti misterici di poiesis, di creatori di mondi alternativi a quelli reali, mondi in cui i codici artificiali mano a mano trovati e condivisi consentono a quei pochi di vivere ieratici e sereni, secondo ‘regole’ e ‘protocolli’. La parola che può sintetizzare questa situazione è ‘purezza’, cioè pulizia, separatezza dallo sporco del mondo.[10]
La lirica che vive in mezzo agli altri (alla ‘gente’) ha avuto vita grama all’interno di questa crescente voglia di perfezione e pulizia. Essa si caratterizza per lo ‘sporco’ che accetta di rappresentare, ma di cui si fa carico ad ogni livello, sia di contenuti che di forme che di relazioni sociali. Il rapporto con l’Altro, il vivere in situazione aperta e conflittuale, si esprime nella estrema variabilità di temi e forme, con un’attenzione prevalente a ciò che oggi si chiama – all’interno della teoria della comunicazione e dei sistemi – il feedback. Il conflitto è cioè con le cose e le persone con cui si convive, per scelta o per forza, non tanto con la ‘tradizione’ tecnica. Certo si continua a ri–usarla, ad attingere ad essa per trovare soluzione ai nuovi problemi, ma lo scopo prevalente non è la propria, personale soluzione di senso, bensì il fatto di riuscire a comunicare agli altri, nella loro totale disomogeneità, la propria personale percezione di una dissonanza cognitiva. La mescolanza, questa mescolanza, comporta la molteplicità dei punti di vista, la loro in-componibilità, l’impossibilità di appiattire tutte le differenze emergenti dalla fluidità sociale sotto la dittatura di una ‘scuola’, di un ‘codice’ che presume di portare una presunta verità incondizionata. Alla rigidità dell’esilio della cameretta, si contrappone la libertà dello scontro; alla ripetizione (che è la cifra sotto cui si nasconde ogni diatriba tecnicistica da ‘setta’) la capacità di dare inizio a qualcosa di nuovo, di non previsto dai meccanismi causali del mondo. Insomma alla arroganza platonica dello ‘stare’, la confusa apertura della quantistica.[11]
A tutto questo si potrebbe obiettare che il primo fondamentale conflitto da riconoscere e controllare è l’alterità che s’annida in noi stessi[12]: e questo solo l’esercizio umbratile e riparato dal rumore di fondo lo può consentire.[13] Misurarsi coi codici che ci fondano[14], seguire i solchi di chi già ha cercato di attraversali per scoprire i propri abissi. Ma, come dice il padre della lirica moderna
.. pur sì aspre vie né sì selvagge cercar non so, ch’Amor non venga sempre ragionando con meco, et io co llui.
Cioè anche se ci si progetta come un essere separato dal mondo, non se ne può fare a meno. Fuggire le genti per ripararsi dagli scontri perturbanti è impossibile alla lunga: si sente sempre il bisogno, prima o poi, di tornare tra le genti, di confrontarsi con l’Altro. Cos’è ”Amor” di cui parla Petrarca, se non il contatto con qualcuno con cui confrontarsi? Petrarca vive la omeostatica impossibilità dell’isolamento tanto cercato per raggiungere la quiete: ha sempre bisogno di quello che di fatto lo sconvolge, che rompe i suoi piani, quello che crea disordine, fastidio. [15]
4.
Se si guarda allo sfondo culturale contemporaneo (la società globalizzata e neoliberista), il poeta da camera e il poeta da slam sembrano interpretare due opposti modi di interagire con le forme che condizionano le esistenze contemporanee: da un lato si interpreta il copione dell’intellettuale colonizzato dall’idea secondo cui ciascuno è, e deve essere, “imprenditore di se stesso”; dall’altro si accetta ed esaspera il modello del situazionista che mira a rifondare le modalità dello star in comune. Per il primo tipo è la tecnica che diventa il valore assoluto[16], per il secondo tipo il comunitarismo[17]. Proprio a partire da quest'ultima figura “è possibile che emergano figure di vita comune, è possibile aprire un discorso che sottragga il lavoro intellettuale all’infelicità di un narcisismo (narcisismo + cinismo) esasperato”[18].
5.
Ma questo abbandono alla situazione, questo dominio della performance, non è una resa allo spirito del tempo, all’ossessione utilitaristica alla prestazione? Le parole, ben lo sa il poeta, non sono categorie a compartimenti stagni, ma hanno bordi slabbrati e si scoprono nuove nelle varie relazioni che intrattengono.[19] Così la performance : essa porta al burn–out se vissuta come adesione allo spirito dell’eccesso,[20] ma porta all’intensificazione del Sé, se vissuta come play pur all’interno di un game. La competizione all'interno del poetry slam non nasce certo dalla volontà di distruggere l’Altro, ma dalla consapevolezza che è l’incontro con l’Altro che mi sposta dal “buco” in cui sono. La gara dovrebbe allora essere vissuta come occasione di conoscenza e di cambiamento grazie all’altro, la gara come situazione aperta a chiunque per costruire comunità aperte, per condividere la ricchezza della differenza. L’alloro recuperato insomma, lo spirito dello slam come quello dei giochi olimpici: segno di una sfida agli dei (il disordine del “sacro”), segno di una sfida all’abisso del divenire (dar vita ad un “Evento”), segno della vittoria sui propri limiti proprio grazie alla com-petizione[21].
6.
Ecco allora che acquista senso il poetry slam. Anzi la relazione tra poetry slam e poesia, per così dire, tradizionale. Tutt’e due sono “Gioco” ma l’uno nelle silenti ed edeniche stanze della solitudine, l’altro in “situazione”, nella situazione aperta e chiassosa e confusa della “piazza”. Una modalità lontana dal ‘rumore’, l’altra dentro il ‘rumore’. L’una in cerca di “ordine dall’ordine”, l’altra in cerca di “ordine dal disordine” (“order from noise” ). L’una chiusa e separata, l’altra mescolata. L’una alla ricerca di una condizione di eterna immortalità, l’altra a giocare continuamente con la morte. La sconfitta, l’eliminazione, lo sporco, la derisione anche come incontro violento e corrosivo, come memento mori, come rinvio alla modestia epistemologica. L’una a cercare cifre fuori del tempo, con emozioni cristallizzate dalle forme e nelle forme; l’altra alla ricerca continua della vita, della sua effervescente esplosione di forza e differenza, di scoperte e di abbandono, di pienezza dell’attimo e nell'attimo.
[1] Dunque, c’è bisogno di una teoria. Infatti succedono molte cose e spesso ci mancano categorie adeguate per dar loro senso. Occorre allora elaborare un Modello Concettuale che con adeguate categorie e le necessarie relazioni riesca a mettere-in- forma i fatti e i concetti che già ci attraversano in modo da creare una chiara ‘figura’ là dove in precedenza si percepiscono solo frammenti. Ogni ricostruzione va considerata come un’ipotesi, che può ricevere valutazioni e interpretazioni discordanti: i contrasti non devono certamente creare confusione o sconforto, anzi è proprio il conflitto che dà origine alla ricerca di senso. Una precisazione preliminare è da fare sul fatto che un Modello, una Teoria, non può che essere una semplificazione rispetto alla complessità dei fatti che succedono. In fondo una teoria è come un filtro che consente di mettere a fuoco alcuni elementi piuttosto che altri in maniera da avere la possibilità di far emergere un ordine laddove prima sembrava esserci disordine. Se rimaniamo entro questa analogia, è il caso di rilevare anche che diverse sono le lenti che un filtro ottico può utilizzare, sì che a seconda della lente si hanno diverse focalizzazioni. Come dire che questa proposta di ‘teoria’ è figlia di specifiche lenti, e che se ne possono avere ben altre. Certamente alcune lenti consentono di mettere a fuoco le cose vicine, altre quelle lontane. Ebbene questa proposta si propone di focalizzare innanzitutto le cose lontane, in modo da avere uno sfondo entro cui i dettagli in primo piano acquistino un senso diverso da quello della mera cronaca.
[2] Il conflitto viene chiamato dai biologi ‘competizione’: esso si verifica sia tra rappresentanti di una stessa specie (competizione intraspecifica) sia fra specie differenti (competizione interspecifica). Questo comportamento è un elemento centrale dell'ecologia, specialmente dell'ecologia di comunità, in quanto è da esso che deriva la struttura delle comunità ecologiche.
[3] E l’avvio a questo processo è dato, come dimostrano gli ultimi studi dei cognitivisti e dei cibernetici, dall’uso non di categorie ‘logiche’ (come deduzione, induzione, abduzione) ma dall’analogia, quella che Hofsstadter e Sander chiamano ”il cuore pulsante del pensiero”: è la percezione spesso inconsapevole di similarità profonde tra cose, gesti e categorie che consente di dare ‘ordine’ al flusso infinito delle cose che accadono.
[4] La letteratura in effetti ben presto individua due forma di soluzione del conflitto: una ‘sociale’ e una ‘privata’. Una che si assume il compito di ribadire idee e valori e modelli di tipo sociale, l’altra che consente di allontanarsi dalla società reale a vantaggio del singolo. L’epica, ad esempio, è un’arma ideologica formidabile che propone e impone una visione del mondo che rinchiude i destinatari entro una precisa rete di segni e di codici; la lirica al contrario consente di separarsi dalla massa e segnalare la propria diversità. Da un lato un codice che conferma l’esistente, dall’altro un codice che dà spazio al cambiamento. Uno che si muove entro gli spazi della frontiera antropologica nota (idealizzata e raccontata come “l’Essere” immutabile); l’altro che si muove lungo i margini della frontiera, alla ricerca di forme adeguate a rappresentare le strutture dissipative del Divenire. Dentro il sistema e/o fuori del sistema: scopi “politici” (Dante della Commedia) e scopi “privati” (Dante di “Guido,i ‘ vorrei...”). In termini di luoghi: la Corte e Piazza di Alighieri contro la 'Cameretta' di Petrarca. Naturalmente i lirici cortesi, i fondatori della lirica moderna, stavano su margini che erano spesso sia ‘politici’ che ‘intimisti’, visto che parlavano di questioni di guerra oltre che di questioni d’amore. E dalle loro corti i giullari portavano in giro per le piazze parole nuove e ‘belle’: la poesia era una pratica sociale fatta di suoni e materialità, di persone che dicono e di persone che sentono. La poesia era performance. Nella pratica comunale invece la lirica diventa presto un esercizio di pura scrittura e la lettura presto diventa ‘silenziosa’. L’alloro in Grecia era segno di distinzione e di vittoria sia per gli atleti che per i poeti. Perché?
[5] La sua essenza si rinviene proprio in questo “inter”, nell’ottimizzare la relazione reciproca di individui aventi interessi e progetti divergenti.
[6] Da Marx in poi è diventata prevalente l’idea che interpretare il mondo sia un lusso e che vale solo il ‘lavoro’ (cioè la tecnica) come mezzo esclusivo per modificare il mondo e l’uomo stesso, mentre ancora Hegel – con Aristotele – riteneva che l’agire sia una forma di conoscenza, aperta al non prevedibile.
[7] La bottega è uno dei luoghi mitici del Rinascimento nell’immaginario contemporaneo: a bottega ‘si impara l’arte’ appunto; la bottega è però una sorta di hortus conclusus, in cui il maestro (‘mastro’) insegna agli apprendisti/adepti i suoi segreti di technè . La bottega è un luogo di vera e propria iniziazione, separato dal resto fluido delle cose che accadono là fuori, in cui si confermano e tramandano i misteri della tecnica. È chiaro allora com’è centrale per l’umanesimo dei primi secoli moderni il concetto di ‘imitazione’: nella bottega si crea un mondo in cui i codici artificiali assicurano la costruzione dell’ordine (del ‘bello’, del ‘cosmos’) indipendentemente e contro il variare delle cose là fuori.
[8] È ancora Nietzsche ad illustrarci con la sua caratteristica sagacia quello di cui stiamo parlando qui: “Ogni persona squisita tende istintivamente alla sua rocca e alla sua intimità, dove trovare la liberazione dalla massa, dai molti, dal maggior numero, dove è possibile dimenticare la regola “uomo”, in quanto sua eccezione […] Chi nel frequentare gli uomini non si è cangiato secondo le circostanze in tutti i colori della pena, verde e grigio di nausea, fastidio, compassione, tetraggine, squallore, non è certo un uomo di gusto superiore; ma posto che egli non prenda volontariamente su di sé tutti questi pesi e questo tedio, posto che li eluda perpetuamente e resti, come si è detto, tacitamente e superbamente annidato nella sua rocca, ebbene, una cosa è certa: costui non è fatto né predestinato alla conoscenza. (Friedrich Nietzsche – “Al di là del bene e del male”, Cap II, Aforisma XXVI)
[9] La bottega del poeta lirico non può che essere soprattutto la sua biblioteca, la massa di libri che fungono da ‘maestri’, che contengono i segreti delle tecniche, segreti che parlano però solo a chi possiede il codice per decifrare il senso profondo dei segni scritti su carta. Non c’è il rumore di fondo delle voci dissonanti e mescolate, ma la nitida separazione dei vari volumi, da cui volta a volta emerge una ‘voce’ che dice le ‘regole’ con cui sono stati composti e che possono essere ripetute per ottenere risultati di eguale ‘ordine’
[10] Petrarca è il modello (O mia cameretta...). Esempi più moderni sono senz’altro D’Annunzio (che materializza quanto stiamo dicendo con l’architettura del suo Vittoriale, in cui esiste una stanza chiamata ‘Officina’) e Ungaretti ( la cui raccolta “Il Porto sepolto” estremizza la separatezza delle tecniche epistemiche della poiesi, attenta a non mescolarsi col lettore e a non rivelare i segreti delle procedure attraverso le quali attinge le sue certezze)
[11] Alle origini della lirica moderna, esiste la figura del giullare che è stata progressivamente categorizzata come una sorta di clown, di intruso fastidioso, che rischia di disturbare la quieta purezza dell’immagine della lirica come ‘perfezione’. In genere tutte le voci dissonanti, le forme anomale, quelle attente a interagire con il fluire delle cose sono state sempre messe ai margini (a partire dalle forme non idealizzanti come la satira); anche tentativi come il Certame coronario del 1448 concepito dal multiforme Leon Battista Alberti abortiscono rapidamente. Con l’affermarsi della società delle “buone maniere” diventa possibile accettare il ricorso alla parola come sfida, ma solo nella forma del bon mot, dell’arguzia, giusto come strumento di affermazione all’interno dell’arengo dei salotti. Solo con il modernismo e la fine dei fondamenti riaffiora progressivamente la necessità di dare spazio alla performance, ad un’arte che rappresenti il fluire, il passare delle cose e delle persone, il corpo. E a partire dalle avanguardie riemerge la necessità pratica di interagire dentro il mondo con le persone, mirando nell’ hic et nunc a prendersi cura degli eventi umani, lontano da ambizioni metafisiche. Il verso libero è il sintomo di questa trasformazione: non scompare il ritmo, ma lo si cerca nel ‘proprio’ respiro in situazione, piuttosto che nella tecnica della tradizione, che pretende la ripetizione infinita. Il ritmo viene riscoperto nella sua corporalità, lontano dalle regole di scuola, come funzione di ordine pragmatico, coerente alla praxis e meno alla poiesis.
[12] La psicologia sociale (Winnicot, Kohut, Mead ecc) ci dice che il Sé è frutto del fascio di caratterizzazioni con cui il singolo si trova a fare i conti nella sua esperienza di vita. La psicanalisi (con Freud, Jung e Lacan) ha sempre più chiarito che l’Io è un testo di superficie, il cui sottotesto è un Vuoto riempito da codici esterni che Io precedono e da cui è ‘messo – in – forma’ : il Soggetto è una sorta di attaccapanni su cui si appoggiano vari vestiti, ovvero copioni, cioè funzioni e desideri e passioni, spesso (o inevitabilmente) contrastanti tra loro.
[13] Scrive Franco Fortini: “Il costituirsi di qualsiasi forma, linguistica o letteraria, comporta caratteri severi di sforzo e progetto, è l'esito di una operazione che si strappa al presente e prende aspetto di passato per poter affrontare il proprio progetto. In questo senso il valore di ogni forma è anche etico-politico, comportando organizzazione, volontà, ascesi, selezione.” (da Fortini - “I confini della poesia” p.29)
[14] Quelli che Lacan chiama il Simbolico, per esempio.
[15] Il “Perturtbante” di Freud
[16] “Far bene il proprio lavoro” è il segno di auto-realizzazione per il manager, per il professionista, per il tecnico di qualunque tipo che riduce l’ambito della propria responsabilità rispetto alle cose del mondo in questa sorta di nicchia ecologica di sopravvivenza. La complessità là fuori è tale che l’unico modo per sentirsi realizzati è ‘limitarsi’ alle cose da fare, alle ‘competenze’ famigerate. Certo lo scopo di tutto questo nell’economia è produrre utile, fatturato, mentre un poeta mira alla soddisfazione del ‘saper fare’ (almeno in teoria). Ma la logica di fondo è esattamente la stessa: riduzione della complessità a protocolli da eseguire, protocolli ovviamente diversi all’interno delle diverse province disciplinari. Insomma l’Io come imprenditore di se stesso corrisponde ad un Io che conosca delle tecniche e le sappia usare. La differenza tra individui è tutta nel diverso livello di questa conoscenza e di questo uso. Non sono forse di tal fatta le diatribe tra poeti e scrittori in genere?
[17] Non è certo l’individualismo a venir meno in questo caso: anzi è sempre il narcisismo che spinge i singoli a scendere in campo e confrontarsi alla ricerca di un riconoscimento che la solitudine della camera non può dare. Solo che costoro mirano a sperimentarsi in momenti di vita collettiva, legati consapevolmente al gioco, alla creatività, agli eventi in cui il rischio della sconfitta accomuna tutti nell’eguale movimento verso il possibile , invece che arenarsi al reale . Mirano insomma a creare quello che Badiou chiama appunto l’Evento, la singolarità che interrompa il flusso caotico determinando un ordine che non esiste già nelle cose.
[18] Nicolas Martino, convegno Effimera, 3-4 ottobre 2015, “Sovvertire l’infelicità”, commentando i lavori di Alfred Sonh – Rethel.
[19] È il contesto ad influenzare l'accezione, le sfumature di significato.
[20] La società della prestazione, come dice Han, è basata proprio sull’ideologia della crescita, ovvero sull’idolatria del feedback positivo: fare sempre di più, in competizione continua con i rivali. La prestazione , cioè la performance, è il valore massimo e il parametro esclusivo da cui osservare l’uomo, di fatto ridotto a puro capitale umano. È il rischio che corre il poeta se diventa solo un abile promoter del suo Sé.
[21] La presenza dei competitori, che sono tali solo nel momento in cui li riconosco miei pari, cioè partecipi delle mie stesse modalità di esistenza e di ars, mi costringono a fare di più, a fare meglio di quanto faccio da solo, a superare i miei limiti. In più, come ha notato a proposito Lello Voce, competere deriva da “cum-petere”, ossia tendere tutti insieme verso una meta, e non come vorrebbe la vulgata neoliberista sgomitare, lecitamente o meno, al fine di raggiungere per primi un risultato.
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