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Giochiamo a pallone? l'umanesimo: tra 'metodo' e 'contenuto'

  • Immagine del redattore: brunovetich
    brunovetich
  • 3 gen 2016
  • Tempo di lettura: 6 min

Cominciamo con la citazione di un autore non classico

“L’essere umano (a venire) perde le sue coordinate animali istintuali venendo inchiodato/fissato su un sinthome (surplus) ‘inumano’. Ciò significa che la differentia specifica che definisce un essere umano non è la differenza tra l’uomo e l’animale (o tra l’uomo e ogni altra specie reale o immaginaria come gli dei),ma una differenza INTRINSECA,la differenza tra l’umano e l’eccesso inumano che è intrinseco dell’essere umano … Il nostro compito è forse cambiare la modalità del nostro esser – fissati in modo da consentire ,e addirittura sollecitare,l’attività di sublimazione”[1]

1

L’essere cosciente, l’essere soggetti che pensano e si chiedono “che senso ha? cos’è? ecc.”, comporta l’inevitabile percezione di un disordine rispetto all’ordine ‘pensato’ (qualunque ordine,qualunque codice ordinatore, qualunque Simbolico): cioè il fatto stesso di creare (accettare) Codici (questo sono gli Ordini Simbolici) determina prima o poi nel singolo uomo la percezione dell’inadeguatezza di questo Codice / Simbolico a render conto della varietà e della complessità delle cose che accadono.

I Codici / Simbolici di per sé infatti sono ‘modelli della realtà’ e non realtà,rappresentazioni approssimate (mappe), che si costituiscono proprio nell’atto del separare,categorizzare, nell’escludere, nel creare ‘rifiuti’.

L’atto della percezione[2] del reale è di per sé una operazione di filtraggio: fin dalle dotazioni biologiche e neurologiche l’organismo filtra solo una parte delle sollecitazioni che arrivano dall’esterno; nel cervello avviene una ulteriore intensissima operazione di ‘montaggio’ di quanto viene selezionato in modo da avere – all’interno delle varie aree e dei vari strati del cervello - delle vere e proprie mappe neurali che consentono di interagire con il mondo in termini di ri – conoscimento. La mente di fronte alle cose che stanno fuori dell’organismo opera cioè secondo processi di tipo analogico,non secondo la Logica formale, che è appunto uno dei Codici Simbolici: nei casi molteplici delle scelte che vengono fatte ogni istante per ‘sopravvivere’ l’organismo ha bisogno di re – agire in termini di immediatezza; e per farlo non può operare con la lenta necessità delle procedure analitiche, ma solo con quelle fulminanti della analogia.

Certo questi procedimenti funzionano sul piano del ‘pressappoco’ piuttosto che su quello della ‘precisione’. Ma è proprio questo che rivela la generale modalità di funzionamento della macchina – mente. Ossia, anche quando si posseggono (dopo lenti e accurati studi) procedure raffinate ed elaborate di analisi, prima o poi è inevitabile accorgersi che esse in ogni caso non sono che ‘analogie’, che nascono comunque dalla semplificazione del mondo, dalla sua ‘banalizzazione’.

Se si dimentica questa cornice di fondo, c’è inevitabile il rischio di scambiare la mappa per il territorio (giusto per ricorrere alla famosa ‘metafora ‘ di Bateson). Nel caso dell’umanesimo, c’è l’equivoco di scambiare i contenuti ‘storici’ (prodotti da specifiche realtà sociali, da situazioni contingenti) per ‘verità’: erano comunque solo ‘mappe’ e non certezze, la cui ‘verità’ non è appunto nel ‘cosa’ dicono’ ma nel ‘modo’ in cui arrivano a dirlo. Se i Greci parlano di kalokagatìa[3] è perché con questo concetto arrivano a formulare il bisogno di superare le varie situazioni del quotidiano che ingenerano contese e mettono in luce il divenire delle cose e di costruire un Ordine Simbolico (astratto) su cui concordare per poter ‘comunicare’. Gestire le differenze di cui è fatto il reale. L’inumano al posto dell’umano appunto. Allo stesso modo, per intenderci, se oggi vogliamo giocare una partita di calcio, abbiamo bisogno di accordarci prima sulle ‘regole’ da rispettare in ‘quel momento’, nella specifica cornice in cui ci si trova: in quanti si gioca?con o senza portiere’ porte grandi o piccole?sostituzioni?fuorigioco? ecc. è la procedura che impedisce ai giocatori che fare a botte, non la singola regola su cui ci si è accordati!

L’equivoco sull’umanesimo oggi è dello stesso tipo:si sostituisce il contenuto al metodo.

La crisi dell’U. è in effetti inevitabile se si pensa che essere umanisti consista nel ripetere proprio le cose dette da questo o quell’autore antico: ovviamente dal momento che si accetta che le parole dei classici ‘siano’(dicano) davvero la realtà, ci si trova davanti allo scacco,perchè bisogna fare i conti con le differenze traumatiche della realtà concreta. E si cerca allora di superarle con una nascondimento: il disordine è nella mente degli Altri, è nella mancanza di ‘gusto’, nella mancanza di qualcosa. Al limite è nelle cose stesse : che vanno allora aggiustate fino a farle combaciare con queste ipostasi.

Ma alla lunga questo gioco (che è consentito solo sulla base del controllo del Potere reale sulle cose e sulle persone) si rivela per quello che è: appunto una presunzione, un equivoco. E allora si piange sulla inattualità dell’umanesimo, sulla necessità di abbandonarlo. Il che porta, ad esempio, la massa degli inetti insegnanti di latino dei licei contemporanei a lasciar perdere volentieri l’insegnamento del latino a favore di traduzioni e commenti estetici, a tralasciare la filologia a favore dell’attualità,a tralasciare la lentezza dell’analisi a favore della velocità del social web.

Naturalmente è davvero giunto il momento di lasciar andare qualcosa in soffitta: proprio il ‘mito’ platonico che superalitat nei sacelli diruti dei licei, quello che insiste a identificare la cultura greca e latina con gli ‘ideali’della perfezione,dell’armonia, dell’equilibrio ecc., e continua a nascondere la componente dell’asimmetria, dell’eccesso, dell’irregolare. È evidente , per chi vuole filologicamente evitare di accontentarsi di quanto detto da questa o quella presunta ‘fonte’ di autorevolezza, e cercare le tracce intense (anche se troppo nascoste nei secoli ultimi)un umanesimo ‘nero’,che focalizza la dissipazione e l’entropia, ovvero il ‘divenire’ invece dell’”essere”.

2

Il fatto è che l’U. è soprattutto una questione di metodo: l’uomo è diverso dall’animale non per la perfezione cui agogna, ma per il fatto, più semplice ma preliminare, di agognare qualcosa, di avere delle intenzioni, anzi delle tensioni che vanno al di là dell’esistente. L’uomo è nel modo in cui si pone di fronte al mondo,non nelle maniere concrete storiche in cui risolve i suoi problemi.

L’animale,certo, ha delle intenzioni: ma all’interno dello spazio in cui vive. L’animale è in effetti coatto: vive dentro le pulsioni omeostatiche della sopravvivenza e, nella sua meccanica necessità di vivere,punta (“tende a “) a risolvere i problemi di vita (procurarsi energia,sicurezza) in modo automatico, secondo i particolari input che ogni specifico organismo (in tutta la sua complessità) impone. La natura, appunto, consiste in questa banale risposta alla necessità della sopravvivenza, alle spinte della paura di essere sopraffatto. E tutto quanto risolva il bisogno di sopravvivere e di star sicuro è di per sé ‘buono’. Detto con le parole della vulgata neoliberista è ‘buono’ tutto quello che è “efficace” ed “efficiente”

L’uomo invece,ad un certo punto della sua evoluzione, scopre la soggettività,cioè si pone il problema del senso di quello che fa: anche lui come tutti gli animali ha ‘intenzione’ di ‘(soprav)vivere’,nel senso che ‘tende a’ risolvere quei problemi di cui si è detto; ma a differenza degli altri animali si pone il problema del ‘senso’ di questi movimenti di vita , e ambisce in un modo o nell’altro a costruire un ordine suo,diverso (il Simbolico).

L’uomo non si limita a ripetere l’esistente,ad adeguarvisi, ma a trasformarlo in modo da soddisfare i suoi scopi. Dal momento in cui egli “sa” di star lottando per (soprav)vivere, cerca di creare relazioni non date tra le cose che lo circondano,tra le cose e se stesso.

L’eccesso inumano dell’umano (per usare la terminologia di Zizek) ,secondo l’antropologia nasce – nel concreto- nel gesto di buttare i resti dei pasti in luoghi diversi da quelli dove li consuma: nasce nel momento in cui “mette – in – forma” le cose che usa per coazione pulsionale in modo “innaturale”. L’umano nasce con il discrimine tra un “qui pulito” e “là sporco”.

La prima linea che crea discriminazione, che costruisce categorie semiotiche è probabilmente quella che separa il cibo dai resti,che libera lo spazio dai rifiuti che ingombrano gli altri gesti

L’uomo consiste allora nell’artificiale, nella sua volontà di segnare la dimensione animale di una coloritura ‘umana’.:vuole modificare la natura.

Di qui tutta la cultura. che è gioco,finzione,artificio, falso …

Anche quel ‘divino’ che gli si attribuisce nei miti classici è semplicemente un segno per indicare la differenza rispetto all’animale:dando per scontato che gli dei sono invenzioni umane, proiezioni delle paure e dei desideri umani,dire ‘divino’ l’umano significa appunto sottolineare quanto di non naturale c’è nella sua azione di sopravvivenza,quanto di artificiale c’è nel suo procedere nelle cose delle mondo.

Così le leggi di Mosè, così Pico della Mirandola insistono sulla metafora del divino per imporre una dimensione sublime all’azione umana che è tale proprio nella volontà di superare i limiti degli animali / uomini

[1] Zizek,La visione di parallasse,p.188

[2] “Percezione” è vocabolo derivato dal latino per – cipere cioè per – capere: come dire ‘prendere attraverso’. La percezione (che nella lingua più comune è inteso come ‘capire’ ha insomma a che fare con il fatto di prendere qualcosa e metterlo dentro (la mente) ATTRAVERSO qualche cosa che faccia da filtro

[3] “Bellezza e bontà” : la coppia è paradigma della corrispondenza dell’ordine estetico con quello etico. L’equivoco nasce dal pensare che questa sia una verità ontologica; i Greci invece sapevano che il divenire delle cose è bruttezza e cattiveria, ovvero che nelle cose non c’è una intenzione di Bene e di bello, e si davano quindi il compito di ‘creare’ il Bello e il Bene. Proprio l’antinomia Apollo /Dioniso derivata dal mito e messa in scena nelle tragedie stava a dire questa consapevolezza del disordine da superare con l’intenzione.


 
 
 

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